“Bella ciao” è per tutti canto di libertà

Luigi Oliveto

03/05/2016



E' ormai passata la festa della Liberazione. Il vento di una primavera bizzarra si è portato via le note di bande e fanfare, e via le polemiche che quelle note hanno sollevato. Perché – questa la disputa – “Bella ciao” sarebbe canto che divide e contrappone. Tèsi un tantino pretestuosa, comunque errata, perché la canzone, oggi nota in tutto il mondo, ha una storia di significato tutt’altro che divisivo. Si diffuse, infatti, e soprattutto dopo la Liberazione, proprio come canto ‘non ideologico’, simbolo di un antifascismo unitario, di una lotta “contro l’invasore”, di sentimenti condivisi in nome della libertà e della democrazia. A rigore di storia (storia della canzone popolare e non soltanto) “Bella ciao” è cosa diversa da “Fischia il vento”, dove – a voler essere filologici – una connotazione di parte può rivelarsi tra gli slanci poetici di una “rossa bandiera”, di una primavera altrettanto “rossa” e di un nascente “sol dell’avvenire”. Lo storico (e partigiano) Roberto Battaglia, nella sua “Storia della Resistenza”, parla di “Fischia il vento” come di inno ufficiale delle Brigate Partigiane Garibaldi. La prima stesura di quei versi, adattati alla melodia della canzone sovietica “Katyusha”, si deve a un giovane medico ligure, Felice Cascione, comandante una squadra partigiana accampata nell’alta valle di Albenga (nucleo di cui avrebbe fatto parte, successivamente, anche Italo Calvino). Ben presto il canto si diffuse oltre le valli liguri. Sappiamo che la canzone ebbe una sorta di debutto ufficiale ad Alto (Cuneo), quando il giorno dell’Epifania 1944 venne intonata in piazza da un gruppo di partigiani. Tre settimane dopo Felice Cascione sarebbe stato ucciso dai nazifascisti.
 
Genesi incerta - Ben più intricata è la vicenda di “Bella ciao” che – come ricordano anche gli storici della canzone italiana Antonio Virgilio Savona e Michele Straniero – non fu tanto cantata durante la guerra partigiana, ma soprattutto nell’immediato dopoguerra, allorché acquistò una popolarità internazionale grazie ai “Festival mondiali della gioventù democratica” che, a partire dal 1947, si svolsero a Praga, Berlino, Vienna. Durante la rassegna “Canzoni mondiali per la Gioventù e per la Pace”, i giovani italiani la eseguirono invitando il pubblico a scandirne il ritmo con il battito delle mani. Da allora la canzone venne tradotta ed eseguita in molti paesi. Quanto alla sua genesi, varie e talvolta discordanti sono le ipotesi. Tra le più accreditate quella che la vuole nata tra i partigiani combattenti sull’Appennino bolognese dove, dopo la disfatta della Repubblica partigiana di Montefiorino (Modena), si unirono diverse formazioni, tra cui quelle di “Giustizia e Libertà” che videro pure la militanza di Enzo Biagi. Esiste, a questo proposito, una sorta di leggenda metropolitana secondo cui sarebbe stato lo stesso Biagi l’autore delle parole di “Bella Ciao Partigiana” composte sull’aria di un canto popolare padano suggeritogli da un anonimo medico partigiano modenese. A incrementare ulteriormente la leggenda fu il fatto accaduto a Pianaccio Bolognese durante il funerale del celebre giornalista. Quando il feretro uscì dalla chiesa, un coro affatto improvvisato eseguì una toccante “Bella Ciao” prima che il corteo muovesse verso il cimitero del borgo.
 
Derivazioni popolari - Nel corso degli anni, etnomusicologi e ricercatori sul campo hanno formulato diverse supposizioni circa le origini di “Bella ciao” e la sua discendenza da melodie popolari. Il testo potrebbe essere riconducibile al canto piemontese “Fior di tomba” che, tradotto dal dialetto, parla di una tomba su cui “pianteranno delle rose e dei fiori” e “tutta la gente che ci passa sentirà il profumo; / diranno: è morta la bella, è morta per amore”. Mentre nell’iterazione del “ciao” richiamerebbe una canzoncina per l’infanzia diffusa con molteplici varianti nel Nord Italia: “La me nòna l’è vecchierella” / la me fa ciau / la me diś ciau / la me fa ciau ciau ciau / la me manda la funtanèla / a tor l’acqua per deśinar”. Non è esclusa nemmeno l’ipotesi della trasmigrazione di una ballata francese del Cinquecento che, per successivi passaggi, si radicò nella tradizione piemontese con il titolo di “La daré d’côla môntagna”, poi in quella trentina (“Il fiore di Teresina”), quindi in quella veneta (“Stamattina mi sono alzata”), successivamente nei canti delle mondariso e infine in quelli dei partigiani. Ma c’è chi ha smentito quest’ultima eventualità, poiché il canto delle mondine padane (“Alla mattina appena alzata, / o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao, / alla mattina appena alzata, / devo andare a lavorar! / A lavorare laggiù in risaia, / o bella ciao…”) risulterebbe composta dopo la guerra dal mondino Vasco Scansani di Gualtieri (Reggio Emilia). Dunque posteriore alla versione partigiana. A completare il ventaglio delle congetture va citata infine una possibile derivazione da una melodia yiddish (la ballata “Koilen”) registrata nel 1919 a New York da un fisarmonicista ucraino.
 
Canzone di libertà - In epoca ‘moderna’ giunsero per prime le incisioni discografiche di Sandra Mantovani e Fausto Amodei in Italia (1963), del cantautore Yves Montand in Francia. L’esordio televisivo di “Bella ciao” avvenne nella trasmissione “Canzoniere minimo” (1963) con l’esecuzione di Giorgio Gaber, Maria Monti e Margot. Nel 1967 Gaber ne fece un 45 giri. Ma già Milva (1965) l’aveva registrata in disco. Lungo il Novecento quella melodia popolare ha attraversato i generi musicali più disparati, rock compreso. La sua universalizzazione ha contribuito, peraltro, a svincolarla da univoche appartenenze di partito. Basti ricordare che il congresso Dc che elesse segretario il partigiano Benigno Zaccagnini si concluse sulle note di “Bella ciao”. E’ dunque canto di tutti. Di tutti quanti – al di là dei reducismi, della retorica, della mitografia – amino la libertà, e non certo dimenticando chi, a caro prezzo, quella libertà ci ha affidato. Dunque, perché non cantare, nel segno della memoria e della riconoscenza, che “è questo il fiore del partigiano morto per la libertà”.
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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