Siamo tutti Fréderic, il protagonista di “Una vita senza fine” (Bompiani), ultimo romanzo di Fréderic Beigbeder. Perché come lui vorremmo essere immortali; perché come lui siamo fortemente contrariati dal fatto che debba arrivare il giorno in cui non potremo più essere della partita. Troppo poco sarebbe il ricordo di noi – ammesso poi che qualcuno ci consideri almeno come ricordo – rispetto all’esserci ‘sempre’, in carne e ossa (ben conservate, ovviamente). Certo, il desiderio dell’immortalità non è cosa nuova, ma oggi – suggerisce l’autore – a renderlo quanto mai ossessivo contribuisce pure la scienza, diventata, in materia, più folle della realtà. Ecco perché Fréderic, smagliante conduttore su canali Youtube, quando, in ragione dei suoi 50 anni, si accorge che il fisico ha i primi cedimenti, non accetta lo scarto che va profilandosi tra il corpo e il suo sentirsi sempre giovane. Da qui l’ossessivo censimento su dove e come il sapere scientifico abbia acquisito conoscenze d’avanguardia contro l’invecchiamento. E siccome la finzione letteraria ha attinto da una indagine realmente svolta (persone, aziende, cliniche, scoperte, start-up, macchinari, farmaci citati esistono veramente) lo stesso Beigmeder ammette che non immaginava sino a che punto sarebbe arrivato esplorando il tema dell’immortalità. Fondamentale, comunque, ci sembra l’avvertenza posta in premessa: “L’autore declina ogni responsabilità rispetto alle conseguenze di questo libro sulla specie umana (in generale) e la durata di vita del suo lettore (in particolare).” In queste pagine – brillantemente tradotte da Silvia Ballestra – si ride molto; meno quando si insinua che la causa delle future guerre potrebbe essere proprio l’immortalità. Tutti in guerra, dunque, per conquistare l’eternità, ma rinunciando ad essere umani.
***
Quest’anno mia madre ha avuto un infarto e mio padre è caduto nella hall di un albergo. Sono diventato un habitué degli ospedali parigini. Ho imparato cos’è uno stent vascolare e ho scoperto l’esistenza di protesi per il ginocchio in titanio. Ho cominciato a odiare la vecchiaia: l’anticamera della morte. Avevo un lavoro ben pagato, una bella figlia di dieci anni, una casa su tre piani nel centro di Parigi e una BMW ibrida. Non avevo fretta di perdere tutti questi benefit. Di ritorno dalla clinica, Romy è entrata in cucina con un sopracciglio alzato.
“Papà, se ho capito bene, tutti muoiono? Quindi prima nonno e nonna, poi tocca a mamma, a te, a me, agli animali, agli alberi, ai fiori?”
Romy mi fissava come fossi Dio, mentre ero solo un padre di famiglia mononucleare in stage di formazione accelerata in frequentazione dei servizi di chirurgia cardiovascolare e ortopedica. Dovevo smetterla di sciogliere pasticche di Lexomil nella mia Coca-Cola mattutina per rispondere alla sua angoscia. Mi vergogno un po’ ad ammetterlo, ma non avevo mai pensato che mio padre e mia madre un giorno sarebbero stati ottantenni, e che in seguito sarebbe toccato a me, poi a Romy. Ero scarso in matematica e in vecchiaia. Sotto la capigliatura bionda da bambolina meravigliosa, due sfere blu cominciavano a riempirsi di lacrime, fra il forno a microonde e il frigorifero che ronzava. Mi sono ricordato della sua indignazione il giorno che sua madre le aveva detto che Babbo Natale non esiste: Romy odia le bugie. Quindi se ne uscì con una frase molto carina:
“Papà, non voglio che tu muoia...”
Com’è gradevole tirarla fuori dal guscio... Stavolta toccava a me velarmi di lacrime, rifugiandomi nella dolcezza della sua testolina odorosa di shampoo al mandarino e lime. Continuavo a non capire come un uomo tanto brutto avesse potuto generare una bambina così bella.
“Non ti preoccupare, piccola,” le ho detto, “a partire da adesso non morirà più nessuno.”
Eravamo belli da vedere, come lo sono le persone tristi. Il dolore abbellisce lo sguardo. Tutte le famiglie felici si somigliano, scrive Tolstoj all’inizio di Anna Karenina, ma poi aggiunge che il dolore è diverso. Non sono d’accordo: la morte è un dolore banale. Mi sono schiarito la gola come faceva mio nonno militare quando sentiva che era il momento di ristabilire l’ordine in casa sua.
“Amore mio, ti sbagli di grosso: certo, gli animali e gli alberi muoiono da millenni, ma da adesso in poi è finita.”
Non mi restava che mantenere questa promessa sconsiderata.
Romy era eccitatissima all’idea di andare in Svizzera a visitare la Clinica del genoma.
“Mangeremo la fonduta?”
È il suo piatto preferito. Tutta questa avventura è cominciata dunque dal nostro incontro a Ginevra con il professor Stylianos Antonarakis. Con la scusa di preparare una puntata sull’immortalità, avevo ottenuto un appuntamento con lo scienziato greco per farmi spiegare come le modificazioni del DNA potrebbero allungarci la vita. Era il mio turno di affido di mia figlia quella settimana: l’ho portata con me. La pubblicazione di vari saggi sul transumanesimo mi aveva dato l’idea di organizzare un dibattito sulla “morte della morte” con Laurent Alexandre, Stylianos Antonarakis, Luc Ferry, Dmitry Itskov, Mathieu Terence e Sergey Brin di Google.
Romy dormiva, stesa in un taxi che costeggiava il lago Lemano. Il sole illuminava la cima innevata del Giura, sulla quale una nuvola rovesciava una valanga di bruma trasparente. È stato quel paesaggio bianco a ispirare Frankenstein a Mary Shelley. Sarà un caso se Ginevra è la città in cui il professor Antonarakis lavora alla manipolazione genetica del DNA umano? Niente è lasciato al caso in Svizzera, patria degli orologiai più meticolosi. Nel 1816, a villa Diodati, Mary Shelley aveva fatto tesoro di tutto il gotico di questa città. La calma e la pace poggiano su un razionalismo di facciata. Ho sempre trovato sbagliato lo stereotipo della Svizzera tranquilla, soprattutto dopo diverse bicchierate a base di champagne al Baroque Club.
Ginevra è il buon selvaggio di Rousseau addomesticato da Calvino: ogni svizzero sa che rischia di cadere in un precipizio, di finire congelato in un crepaccio o annegato in fondo a un lago di montagna. Nei miei ricordi d’infanzia, la Svizzera è una terra di veglioni deliranti sulla piazza di Verbier, di cucù strani, di chalet fiabeschi nella notte, di palazzi vuoti e di vallate spettrali di bruma, in cui solo la grappa alla pera protegge dal freddo. Ginevra, la “Roma protestante”, in lutto per il suo segreto bancario, mi sembra l’illustrazione ideale dell’adagio del principe di Ligne: “La ragione è spesso una passione infelice.” Quello che mi piace della Svizzera è il fuoco che cova sotto la neve, la follia nascosta, l’isteria incanalata. La vita può scivolare da un momento all’altro in un universo molto poliziesco. Dopotutto, il nome Genève contiene la parola “gene”: benvenuti nel paese che ha sempre voluto controllare l’umanità. Lungo tutto il lago, manifesti pubblicizzavano la mostra alla Fondazione Martin Bodmer di Cologny dedicata a “Frankenstein, creato dalle tenebre”. Ero sicuro che le Bentley che scivolavano silenziosamente intorno al getto d’acqua fossero piene di segrete creature mostruose.
“Andremo alla mostra, papà?”
“Dobbiamo fare altre cose.”
La fonduta mista groviera e vacherin del Café du Soleil era persino leggera. Niente a che vedere con le mattonate di grasso giallo che si mangiano a Parigi. La mia bimba vi immergeva il pane con grande gusto.
“Oh, mio Dio, da quancio tempo! Mmmmm!”
“Non si parla con la bocca piena!”
“Non parlo, onomatopeizzo.”
Romy possiede ottimi geni: da parte mia, discende da una lunga stirpe di medici bearnesi, e dalla madre ha ereditato un vocabolario molto creativo. Prima di lasciarmi, Caroline trasformava spesso i nomi in verbi. Creava parole tutti i giorni: “pilato” nel pomeriggio, stasera vado a “cinemare”. Un giorno alcuni dei suoi neologismi entreranno nel vocabolario, come “patatinare” o “instagrammare”. Quando mi ha mollato, Caroline non ha detto “ti lascio” ma “è ora di splittare”. Certo, la fonduta svizzera non è un piatto raccomandato dall’Organizzazione mondiale della sanità (20 Avenue Appia, 1211 Ginevra 27), soprattutto a pranzo. Ma la felicità di Romy veniva prima della nostra immortalità. Abbiamo lasciato le valigie a La Réserve, un albergone a bordo lago, e mentre sfogliavo il menu della spa Santé dell’hotel, che proponeva un programma anti-aging con diagnosi genetica della mia bioindividualitàTM, la piccola si è addormentata sul divano di velluto scelto da Jacques Garcia.
Nell’ingresso dell’ospedale universitario di Ginevra erano esposti dei vecchi macchinari per fare i raggi, strane strutture obsolete, precursori degli scanner. La scienza nucleare degli anni sessanta ha lasciato il posto alle manipolazioni infinitesimali, meno ingombranti. Fuori, gruppi di studenti di medicina sedevano sui prati, mentre dentro l’edificio altri giovani ricercatori in camice bianco si davano da fare attorno a fiale, provette e piastrine di cellule. Qui si aveva l’abitudine di addomesticare l’essere umano, di voler correggere i difetti dell’Homo sapiens, persino di migliorare questo vecchio vertebrato. La Svizzera non si faceva problemi con la postumanità perché sapeva che l’uomo è imperfetto dalla nascita. La felicità somigliava a un piacevole campus, il futuro era un teen movie di ambientazione medica. Romy era incantata: il giardino comune disponeva di un portico con altalene, trapezio, anelli e giostrina.
Al nono piano c’era il dipartimento di medicina genetica della facoltà. In polo verde bottiglia, il professor Stylianos Antonarakis non sembrava il dottor Faust ma piuttosto un incrocio fra Paulo Coelho e Anthony Hopkins. Gentile come il primo, magnetico come il secondo. Il presidente della Human Genome Organization (HUGO) si carezzava la barbetta bianca o puliva gli occhiali in metallo come un professor Trifone Girasole un po’ sulle nuvole, mentre spiegava come l’umanità andava cambiando gioiosamente e con buon umore. Romy ha subito apprezzato il suo lato new age: sguardo dolce, sorriso cortese, futuro felice. Il suo ufficio era un casino indescrivibile, una vera e propria tana da alchimista biotecnologico, ma si capiva che il suo era un disordine organizzato. Una doppia elica di DNA gigante di plastica era posata in orizzontale su un tavolo a cavalletti. Guardai i titoli dei libri: History of Genetics vol. 1, vol. 2, vol. 3, vol. 4, vol. 5... La novità delle scoperte genomiche era già roba vecchia per questo specialista di caratura internazionale. Un computer svuotato fungeva da vaso per i fiori, nel quale un arredatore postatomico aveva piantato degli steli di acciaio con le capsule Nespresso conficcate in cima, trasformandolo in un bouquet che non sarebbe mai sfiorito.
“Grazie, professore, per aver voluto dedicare un po’ del suo prezioso tempo a riceverci.”
“Abbiamo l’eternità davanti a noi...”
[da Una vita senza fine di Fréderic Beigbeder, trad. di Silvia Ballestra, Bompiani, 2019]
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