Nel romanzo “Bambino” (Einaudi) Marco Balzano fa dire al protagonista che, da ragazzo, la scuola lo annoiava a morte: “In classe ero un mediocre, me la cavavo bene in Scienze. Fiori, animali e pianeti mi piacevano molto più degli esseri umani. Sarà per questo che ho sempre odiato la Storia: parlava solo di uomini”. Ma all’autore, invece, la Storia e le storie degli esseri umani piacciono eccome. Ne sa indagare la psicologia, coglierne l’universalità. Cerca di capirle anche nei loro risvolti più atroci. Come nel caso di quest’ultimo romanzo, dove dietro a quel titolo rassicurante (“Bambino”) si svela una storia terribile, ulteriore conferma di quanto il Male sia banale, possa covare dentro a qualsiasi esistenza. In tal caso nella vita di Mattia Gregori, detto Bambino per il suo viso glabro. Terribile soprannome per colui che a Trieste è stato il fascista più crudele della città. Nato nel 1900, la sua vita ha attraversato tutto il mezzo secolo più cupo della nostra storia: le violenze in camicia nera, l’antislavismo, la guerra, l’occupazione nazista e jugoslava, il complicato dopoguerra triestino, le foibe. Mattia dirà di sé: “Ho ucciso e fatto uccidere. Ho sempre cercato di stare dalla parte del più forte e mi sono sempre ritrovato dalla parte sbagliata”. Un’esistenza vissuta come prepotente rivalsa, esplosa il giorno in cui, adolescente, apprende che la donna che lo aveva cresciuto non era sua madre. Allora diventa squadrista, odiatore a prescindere, carnefice in brutali azioni antislave, mosse solo dalla rabbiosa ricerca di sua madre, donna senza nome e senza volto, di cui il padre – singolare personaggio sempre chino a riparare orologi – mai nulla gli ha voluto dire. Ecco come può nascere e disperatamente crescere un boia con la faccia di bambino. Ed ecco come, nella narrazione serrata e lucida di Balzano, la cruda vicenda di un singolo divenga memoria storica, racconto civile. Il romanzo inizia con questa scena: “– Bambino. Mi giro di scatto. Lascio il caffè sul bancone e cerco l’uscita. Troppo tardi: la canna della pistola preme già sulla schiena e mi spinge verso la porta. – Guarda dritto, – minacciano quando mi volto verso il mare. Una Millecento è accostata sul marciapiede. Chi la guida mette in moto appena c’intravede dallo specchietto. Mi legano i polsi col fil di ferro. Fuori dalla città mi bendano gli occhi. Penso a quando sono venuto al mondo. Dal ventre placido di mia madre, fino a questa oscurità da cui non tornerò indietro.” Dunque il racconto comincia annunciando uno showdown, forse la fine di un individuo spregevole. Ma nelle pagine di Balzano si va ben oltre le vicende di un singolo. Quella resa dei conti investe Storia e coscienze (individuali e collettive). Perché quando la storia accade occorre quasi sempre scegliere tra due netti contrari. Ad esempio questi, e non è roba da poco: “La vita è aggredire o difendere, distruggere o prendersi cura.”
***
La mia infanzia è stata una noiosa e interminabile infanzia. L’ho trascorsa a contare il tempo nell’orologeria di mio padre: giornate intere sulla sedia a passargli pinze e cacciaviti minuscoli. La scuola è arrivata come una liberazione, anche se non ci ho mai provato troppo gusto. Ancora oggi penso che un uomo possa imparare da solo quel che gli occorre. Scrivere, leggere, far di conto: non serve altro. Mi annoiavo persino in cortile. Tiravo contro il muro un pallone scucito che avevo rubato a dei mocciosi in Campo San Giacomo. Non me lo volevano dare, così avevo dovuto pestarli.
Mio fratello Adriano aveva dodici anni più di me, troppi per giocare assieme. Fino al giorno in cui non l’abbiamo accompagnato al molo per salire sul Martha Washington ho avuto due padri. Uno petulante e l’altro taciturno. Adriano si era imbarcato per l’America appena prima della Grande guerra e per anni mi ha mandato delle cartoline illustrate. Non ha mai amato Trieste, non gli piaceva né la gente né il mare. E anche coi nostri genitori non ho mai capito che rapporto avesse. A me voleva bene, ma come se ne vuole a un ragazzino.
Di amici invece ne avevo uno solo: stessa età, figlio di un italiano e di una slovena che abitavano poco lontano da casa nostra. Ernesto era cento persone insieme e tutte entusiaste, intelligenti, spiritose. Era proprio il mio amico più amico. Ogni volta che potevo restavo da lui a dormire. Le sere di primavera uscivamo in punta di piedi in cortile a catturare le lucciole, le mettevamo in un barattolo e restavamo seduti sulla scala di pietra a guardarle.
A furia di stare con Ernesto e sua madre, di mangiare strudel di ricotta e gnocchi coi funghi, ho imparato lo sloveno. Che donna stupenda Ksenija, una pastaia che sarebbe stata anche la maestra migliore della città. Dalla sua bocca quella lingua usciva come una melodia, altro che l’italiano. Mio padre si stupiva di quanto imparassi in fretta, tanto che un giorno per ringraziarla le ha regalato un orologio da tavolo e al mio amico un taccuino per disegnare. Pensava che fossi portato per lo studio, invece per me stare sui libri significava sprecare la vita. Lo sloveno era un’altra storia: l’ho imparato perché Ksenija era bella e anch’io volevo una madre così. Quella che avevo sembrava una nonna e anche il nome, Tella, era da vecchia.
A scuola ci andavo un giorno sì e uno no. Con le coperte sulla testa protestavo che avevo mal di pancia e mi lasciassero in pace. Tutte quelle ore inchiodato sulla seggiola mi mandavano ai matti. Come quando con un coltellino ho inciso sul banco IL DIRETTORE È UN MONA. Il maestro Zacchigna mi ha rifilato tante di quelle bacchettate sulle nocche che riesco a sentire ancora il male. – Cos’ho fatto per meritarmi simili offese? – ha chiesto il giorno dopo il direttore consegnandomi la lettera di sospensione. Scemenze figlie della noia, che finivano sistematicamente a farmi sanguinare le mani o a passare le ore dietro la lavagna.
Invece al ginnasio reale, se davvero mi veniva mal di pancia, preferivo tenermelo perché saltare scuola significava trascorrere un’intera giornata in orologeria. Per paura che facessi cadere qualcosa mio padre m’inseguiva ovunque finché, esasperato, non mi metteva qualche spicciolo nel pugno per comprarmi una stecca di cioccolata. Anche quando ha scoperto che ci prendevo le sigarette ha continuato a darmeli. Purché mi levassi dai piedi o stessi buono sul gradino del negozio.
In classe ero un mediocre, me la cavavo bene in Scienze. Fiori, animali e pianeti mi piacevano molto più degli esseri umani. Sarà per questo che ho sempre odiato la Storia: parlava solo di uomini.
Erano anni in cui crescevo a vista d’occhio e la zia quando passava a trovarmi ripeteva: «Stai diventando proprio un bel mulo!» I nuovi compagni li sopportavo ancora meno dei bambini delle scuole popolari, ci giocavo giusto il tempo dell’intervallo. Mi bastava Ernesto, con cui facevamo lunghe nuotate verso il Pedocin. Da lì si vedevano le donne in costume. Oppure stavamo a inventare storie sdraiati sul muraglione finché il sole non ci seccava. Anche lui era cresciuto, ma tra i due il figlio di slava sembravo io, biondo e nervoso. Ernesto era grassoccio e con la carnagione mediterranea. Ricordo che quando parlava si succhiava sempre le guance. Gli invidiavo i peli dei baffi e le basette che non aveva mai voglia di tagliarsi. Io ero completamente glabro.
Da poche settimane era scoppiata la guerra. Mio fratello aveva appena fatto in tempo a partire. I nostri genitori erano sollevati che si fosse imbarcato, almeno potevano pensarlo al sicuro. Sul molo, abbracciandomi, mi aveva chiesto: – Verrai a trovarmi? Bello come sei ti sposerai con un’attrice americana! – aveva concluso prima di riprendere le valigie e salire su quella nave che sembrava una città. Adriano me lo ripeteva sempre che ero bello.
In quegli stessi giorni la Tella si era ammalata, le si erano bloccate le ossa. Le sue labbra si muovevano in continuazione come se dicesse il rosario. I medici, quando passavano da casa a visitarla, non capivano il suo male e le prescrivevano solo calmanti. Appena entravo in casa papà mi ordinava di sedermi al suo fianco e se ne andava ad aprire il negozio. «Falle qualche ora di compagnia, che ho da lavorare», mugugnava sottovoce senza guardarmi. Dopo un mese, per non lasciarla da sola a lagnarsi, ha messo una branda al centro del tinello, almeno scambiava qualche parola.
È stato uno di quei giorni che l’ho saputo. Sono tornato da scuola e la Tella mi ha indicato un panino col gulasch che aveva portato la zia. L’ho addentato aspettando che parlasse. Aveva bisogno di tirare grandi respiri per finire una frase.
– Quando ci sentivi litigare era per colpa di tua madre, – ha detto affannata.
Io sono andato avanti a mangiare.
– Hai sentito? Non sei nato da me, – ha scandito con le labbra avvizzite.
– E da chi allora? – ho chiesto senza riuscire più a masticare.
– L’orologiaio è tuo padre, ma quella donna non l’ho mai vista e non so chi sia.
È stata l’ultima volta che l’ho chiamata mamma. Poco importava che stesse morendo: non volevo più starle vicino.
– Fermati un momento, Mattia, – ha detto il giorno dopo afferrandomi il braccio. – Ieri non volevo mandarti il pranzo in veleno, ma non credo che tuo padre te l’avrebbe mai confessato e mi pareva di farti un torto a nascondere la verità. Io ti ho voluto lo stesso bene che ad Adriano.
[da Bambino di Marco Balzano, Einaudi, 2024]
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