Che storia intensa è quella che si racconta nelle pagine di “Cose che si portano in viaggio” di Aroa Moreno Durán, edito da Guanda con la traduzione di Roberta Bovaia. Sorprendente romanzo d’esordio di una scrittrice venuta dalla poesia e che ora si fa apprezzare per la sua prosa sicura, misurata, mai fuori registro. È l’autunno del 1971, a Berlino Est. Lì è nata e vive Katia insieme alla sua famiglia (papà, mamma, una sorella). I genitori, comunisti spagnoli, erano rifugiati in Germania al tempo di Franco. La famiglia si barcamena nelle ristrettezze economiche e nel grigiore della Berlino Est. Non bastano i ferventi ideali socialisti del padre a sollevare la madre dallo sconforto di quando, a ogni cena, mette in tavola la solita zuppa di cavolo. È in quell’autunno 1971 che Katia, non ancora ventenne, decide di lasciare clandestinamente la DDR. Scappa all’improvviso, in segreto, senza nulla dire ai suoi, con tutti i rischi che la fuga comporta. Azzarda questo non per ragioni politiche, di libertà, di agognato benessere. Lo fa perché si è incapricciata di Johannes, un ragazzo dell’Ovest (“Si strinse a me e slacciò la cintura del mio cappotto. Mi cinse con una mano la vita, umida e calda per la camminata veloce, e mi sfiorò il collo con la bocca. E in quel paio di minuti di stupore e letargo capii che l’avrei seguito”). Sarà lui a organizzarle la fuga attraverso la Cecoslovacchia e la Baviera: “Così dove altri avevano rischiato la vita per un’idea, per un’altra vita, migliore o peggiore della nostra, o solo per sapere com’era la luce che sorgeva ogni giorno di là dal nostro muro, io avrei corso lo stesso pericolo ma sull’onda dell’istinto più irragionevole.” Poi, con gli anni, l’amore deve mettere in conto anche il disamore. Il tempo riposiziona storie individuali e storie collettive. Così Katia si ritrova delusa e tormentata per il tradimento perpetrato nei confronti della propria famiglia, della propria storia. Vive la sofferta condizione dello sradicamento, di una mancanza d’identità, del rimpianto («C’era sempre qualcosa dentro, nella pancia, nel cuore, lì a dirmi che avevo puntato tutto quello che avevo, destabilizzando la vita mia e la vita di chi mi amava.” Il romanzo della Durán è una storia di strappi, di fughe e di viaggi al di là e al di qua di un muro drammaticamente vero ma anche simbolico. C’è poi un oggetto che, nella vicenda, assume importanza: una valigia tenuta nascosta, chiusa a chiave, perché custodisce segreti. Non è dunque un caso che si parli di cose da portare in viaggio, laddove questo viaggio alla ricerca di sé stessi, di affetti e radici, comporterà senz’altro la preparazione di una valigia. Cosa mettervi dentro?
***
La sera in cui papà non tornò in tempo per accendere la stufa fu il giorno più freddo di tutto l’inverno. Toccò alla mamma scendere in cantina e risalire con un sacco pieno di carbone e rami. La legna era umida. Ancora carbonella, quest’uomo non pensa mai a niente, disse con il sacco tra le braccia. A me e a Martina piaceva rimestare nel carbone, specie quando era più molle. A volte, quando mamma non ci guardava, sfregavamo un pezzetto contro l’altro finché non ci sporcavamo le dita e i pezzi di carbone brillavano come il giaietto.
Papà arrivò quando era ormai notte fonda. Cosa succede qui, chiese. Dimmelo tu, rispose mamma. La piccola sala che faceva da soggiorno, cucina e camera da letto di noi bambine si era riempita di fumo. Papà mi prese le mani e vide che avevo i ditini neri di carbone. Sfregò forte i suoi polpastrelli rugosi contro i miei.
Con mamma parlavamo sempre in spagnolo e con papà in tedesco. Non ce ne chiedevamo la ragione. Papà aveva imparato il tedesco in fabbrica, a Dresda, ma non riuscì mai a parlarlo perfettamente. E così d’abitudine si sedeva accanto a me e Martina mentre facevamo i compiti e in quel modo imparò, pian piano, a declinare correttamente, a mettere il verbo alla fine, esasperato: come faccio a sapere cosa mi vogliono dire se non sento il verbo, se non so cosa succede finché non hanno finito di parlare. Il suo cervello si abituò alla lingua, e anche se è sempre stato in grado di comunicare, io non sono mai riuscita a capire bene cosa dicesse. Era il tedesco di papà. Questa lingua, con queste parole infinite, non è umana, protestava. Mamma si era rifiutata di impararlo e benché papà le avesse riempito la casa di fogliettini con i nomi delle cose – Fenster, Topf, Bett, Ofen – non fu mai in grado di articolare una frase completa. Comunicava a gesti e con singole parole. Kartoffeln, un chilo, e tirava fuori un dito dal guanto e lo agitava davanti agli occhi del negoziante mentre io e Martina ci spanciavamo dal ridere. Metti al mondo i figli perché ridano di te, diceva lei.
La zuppa bolliva sul fuoco. Il rumore della radio smuoveva l’aria della stanza. Papà uscì dalla camera in cui si era chiuso a parlare con mamma per un bel pezzo. Lei s’infilò in bagno e, quando tornò, capii che aveva pianto. È il vapore, disse. E mescolò la pentola lasciando che la puzza acre del cavolo si mescolasse al fumo della stanza.
Non voglio il cavolo, fa schifo.
Non c’è altro.
Ma l’abbiamo mangiato anche ieri sera.
Martina, le disse mamma serissima, a me piacerebbe farti un cosciotto d’agnello al forno, ma qui non ci sono agnelli perché fa molto freddo.
Papà, vero che gli agnelli non soffrono il freddo perché hanno la lana?
Manuel, spegni quell’arnese, perdio.
La radio passava il solito lipsi notturno, quel ballo assurdo e asessuato con cui il Governo pretendeva di combattere il rock and roll. Heute tanzen alle jungen Leute im Lipsi-Schritt, nur noch im Lipsi-Schritt. Allen hat der Takt sofort gefallen. Sie tanzen mit im Lipsi-Schritt. Papà alzò il volume e cominciò a spostarsi ondeggiando per il salotto, muoveva le spalle con le braccia lungo i fianchi e faceva dei passettini, a destra e a sinistra, avanti e indietro, con gli occhi socchiusi e un sorriso sulle labbra. Si mise dietro a nostra madre e le slacciò il grembiule. Mamma si girò, non sono in vena, ma non poté liberarsi dalla presa. E dai, moglie, immagina che sia una copla.
Ballarono fino alla fine della canzone, mentre io e Martina, ciascuna con la penna ferma sul foglio di carta e una macchia di inchiostro blu che si allargava tra le righe, li guardavamo attonite, sentendo in corpo qualcosa di simile al calore. Ecco fatto, disse mamma, basta con le pagliacciate, andiamo a cena.
Papà mise le dita nell’acqua ed estrasse una foglia quasi trasparente di cavolo, sapete cos’è questo?, una fetta di jamón serrano. Che bontà, Katia. Ne vuoi? Sì. Martina? No. Cos’è il jamón serrano? Papà la ignorò. Sicura? Come vuoi.
Quella casa gialla: una volta grattai la carta da parati dietro il letto e trovai ben otto rivestimenti diversi. Come se ogni inquilino che aveva vissuto in quel quarto piano mansardato avesse voluto lasciare la sua impronta, fermare la sua vita, e quello successivo avesse voluto coprirla incollando strato su strato. Per arrivare alla nostra scala, bisognava attraversare il cortile. Era un piccolo bosco anarchico. Potrebbero ridipingere i muri, diceva mamma, sembra di essere ancora in guerra. Il palazzo fuori era grigio. Tutti gli edifici erano grigi allora, scrostati, scheletri con indosso un vestito sporco. Ma io ricordo solo la casa in cui faceva sempre freddo. Era stato papà a presentarci a tutti i vicini e, quando salivamo le scale, da ogni pianerottolo potevamo vedere cosa facevano gli abitanti delle case di fronte, giocavamo a spiare le loro abitudini: Frau Zengerle, sempre a controllare la caldaia dell’acqua, Ekaterina che leggeva davanti alla finestra. Capimmo subito che Herr Schmidt era morto la mattina in cui non lo trovammo in piedi, dietro al vetro, a salutare con gli occhialini che gli scivolavano sul naso; gli è successo qualcosa, aveva detto papà. Poi ci spiegarono che, mentre noi guardavamo la sua finestra dall’altro lato dei castagni, avevano trovato Herr Schmidt, l’uomo che non aveva più messo il naso fuori di casa dopo la Seconda guerra mondiale e viveva della solidarietà delle vicine che gli portavano la spesa, addormentato per sempre sul pavimento.
All’inizio ci svegliavamo con l’odore dolciastro del forno al pianterreno, la cui canna fumaria saliva lungo un lato del palazzo e spuntava proprio accanto alla nostra finestra. Nel 1962 chiusero il forno e quasi tutti i negozi della nostra strada. Avevamo poche cose: in sala, un tavolo di legno scuro e quattro sedie, la credenza zoppa che non si poteva toccare perché ci avevamo messo i nostri quattro piatti e bicchieri, i libri di papà, un letto stretto e un divano. In bagno, una spazzola che conservava l’odore dell’ultima acqua di colonia, una saponetta consumata per lavarsi le mani e gli strani arnesi che papà usava per radersi. Quando ero piccola, la mattina, mi sedevo sulla tazza con i piedi che penzolavano in aria e lo guardavo mentre si insaponava tutta la faccia con il pennello. Poi si girava e mi chiedeva: chi sono? Un nano grasso, e si chinava e mi sfregava il naso col suo, sporcandomi di schiuma bianca. L’odore di umidità: mamma aveva pulito le piastrelle verdi con l’acido al nostro arrivo, grattando via lo smalto. Adesso è ancora più brutto. Ma almeno è pulito, le aveva detto papà. Poi c’era la camera dei nostri genitori: il letto, sotto il quale ci era proibito nasconderci, due casse, una sopra l’altra, che facevano da comodino, su cui mamma mise un centrino di stoffa ricamata, e l’armadio dei vestiti. C’erano due cose che curavamo come se fossero vive: la radio e la stufa. I nostri inverni dipendevano dal loro funzionamento.
Dall’unica finestra che dava sull’esterno dell’edificio si vedeva uno spiazzo disabitato, la guerra è così, abbatte tutto, diceva papà, e spesso restava in piedi davanti al vetro, in silenzio. Come se volesse vedere oltre la neve, oltre l’unico albero che resisteva e la notte. La guerra era un fantasma, un alone bianco, la sentivo come una cosa lontanissima e, anche se dappertutto nell’aria ne era rimasto l’odore e i bambini giocavano ancora alle trincee, non riuscivo neanche a immaginarla. Speriamo che le nostre figlie non la conoscano mai, la guerra, diceva mamma. Loro no, diceva papà, e ogni volta le intimava di tacere e cambiava argomento.
Mangiammo la zuppa di cavolo sorseggiandola piano, a volte mettevamo le mani sul piatto per scaldarcele. Papà soffiava sul cucchiaio, fischiando. Nostra madre fece la tisana con le foglie di tiglio e si scottò il polso destro nel filtrarla. Papà corse in bagno e le mise un po’ di dentifricio sull’ustione. E le diede un lungo bacio sulla mano, guardandola, mentre mia madre alzava gli occhi verso il soffitto pieno di macchie.
[da Cose che si portano in viaggio di Aroa Moreno Durán, trad. Roberta Bovaia, Guanda]
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