Antonio Scurati e il racconto di una infelicità generazionale

Luigi Oliveto

22/04/2016

Ecco la società odierna – nel suo malinconico vitalismo di consumi, social, gastronomia, kitsch – vista però attraverso una vicenda di coppia. Tale è l’impietoso racconto che Antonio Scurati sviluppa nelle pagine de “Il padre infedele”. Lui chef in carriera e marito fedifrago, lei neomamma in depressione e lesbica di ripiego. Racconto dell’infelicità di una intera generazione trovatasi inadeguata rispetto a sentimenti, idee, non-scelte.
 
Ieri mattina, all’improvviso, mia moglie è scoppiata a piangere in cucina. Erano le dieci in punto. Lo so perché l’orologio canoro da parete, che teniamo affisso giusto di fianco alla cappa ad aspirazione forzata, aveva appena segnato il tempo riproducendo il canto masterizzato del picchio rosso maggiore. Un verso inconfondibile, pressoché identico a una risata prolungata.  In quel preciso istante, come se si fosse convenuto un segnale con un regista occulto, Giulia ha erotto in un pianto convulso. Per lunghissimi secondi sarebbe stato del tutto inutile chiedergliene ragione. D’altronde, io mi sono guardato bene dal farlo. La mia mente, dapprima indecisa tra le due diverse linee ritmiche offerte dal pianto e dal picchio, ha poi subito optato per la seconda. Mi sono dunque sintonizzato con il suono emesso dal becco a scalpello mentre, per delimitare il territorio, tambureggiava sui rami morti.  Giulia, intanto, singhiozzava di quell’apnea che avevo sempre ritenuto appannaggio esclusivo dell’infanzia. […] Ancora qualche attimo di pianto sincopato e poi, stremata, ha detto: «Forse non mi piacciono gli uomini». […] Ora anche io respiravo a fatica. Non muoverti, non fiatare se ti riesce, mi ripetevo. Adesso l’unica cosa da fare era pensare. L’ho fatto. La prima cosa che ho pensato è stata: grazie a Dio finalmente mi parla. Anche il secondo pensiero mi ha portato grande sollievo: grazie a Dio sono innocente.  Mi appariva infatti chiarissimo che l’ammissione di mia moglie, simile a un solenne segno della croce tracciato nell’aria asfittica della nostra cucina tramite la violenza sonora di sole sei parole – «Forse non mi piacciono gli uomini» –, mi assolveva da ogni mia colpa di padre infedele. Passata, presente e futura. Indulgenza plenaria. Soltanto al terzo pensiero mi sono riscosso da quel miraggio, chiedendomi che cosa Giulia avesse davvero inteso dire. Mi sono concesso un breve giro di ipotesi.  Prima ipotesi. Se non gli uomini, a Giulia piacevano forse le donne? L’ho scartata subito. E non per un malinteso orgoglio virile, ma perché quella tesi romanzesca mal si accordava al realismo domestico delle crisi coniugali. Per una volta avrei cercato di essere anch’io una persona seria; non mi sarei perciò rifugiato nel colpo di teatro. Avrei accettato di fare i conti con la banale prosaicità della vita di tutti i giorni, quella che scorre per capillarità dal cuore di un universo annoiato nella moltitudine delle nostre quotidiane insoddisfazioni.  Seconda ipotesi. Giulia aveva forse confessato la propria misantropia? Non le andava a genio l’umanità? Ho subito scartato anche questa. Serietà, ci voleva serietà. E nessuna sarcastica autoindulgenza.  Accantonato dunque anche il sarcasmo – questa malattia pandemica dello spirito contemporaneo – ho provato finalmente comprensione per quella donna che piangeva in cucina, la donna che un tempo avevo amato e alla quale avrei sempre voluto del bene. Allora mi sono alzato e l’ho accarezzata. Le ho accarezzato il volto come fanno le madri, non il capo come fanno i padri.  Illuminato di rimbalzo dalla pietà di quel gesto, ho trovato risposta all’interrogativo di prima: piangendo, dubitando di sé, generalizzando, Giulia mi aveva inequivocabilmente comunicato che non le piaceva più l’uomo che le sedeva di fronte nella nostra cucina. Questo qui. Sì, proprio questo qui. Come darle torto?  Era il 30 settembre dell’anno 2011. Indossavamo ancora magliette estive a maniche corte a causa del persistere fuori stagione sul Settentrione d’Italia di un’area di bassa pressione africana, il presidente del Consiglio era inquisito con l’accusa di favoreggiamento della prostituzione minorile, e il differenziale tra titoli di Stato e bund tedeschi aveva sfondato il tetto dei cinquecento punti. Entro pochi minuti, scandendo l’undicesima ora antimeridiana, il barbagianni avrebbe dato il cambio al picchio rosso maggiore sul quadrante del nostro orologio da muro.  In quel momento mia moglie Giulia e io ci conoscevamo da otto anni, ci amavamo da sette (sette io, a dire il vero, e sei lei), eravamo fidanzati ufficialmente da cinque, sposati da quattro, madre e padre di nostra figlia da tre. Ora, però, non c’era più niente da fare. Tutto era già accaduto e il nostro scopo lo avevamo mancato. In quanto moglie e marito, non ci rimaneva che decidere se vivere o morire per qualcosa in cui, comunque, non credevamo più.
 
[da Il padre infedele di Antonio Scurati]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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