Di Anne Tyler in molti ricorderanno le sue “Lezioni di respiro” (Premio Pulitzer 1989), storia di una coppia come ce ne sono tante, in una città di media grandezza (Baltimora, dove abita la scrittrice), vicenda che racconta la minuta quotidianità di minute esistenze e ciò che vi si annida in termini di rimpianti, monotonia, attese. Questo, infatti, sa fare Anne Tyler: raccontare la vita ordinaria con una prosa altrettanto ordinaria (e per chi scrive è conquista, non attitudine innata). Tanto la appassionano le vite degli altri che in una recente intervista rilasciata a Laura Pezzino (Tuttolibri, 20.6.2020) ha confidato che se non avesse fatto la scrittrice, sarebbe andata a lavorare come domestica, pur di entrare nelle altrui esistenze. È persona dalla vita ordinaria anche il protagonista dell’ultimo libro, “Un ragazzo sulla soglia”, pubblicato da Guanda per la traduzione di Laura Pignatti. Il suo nome è Micah Mortimer, si guadagna da vivere come tecnico informatico e come tuttofare nel condominio di Baltimora, dove abita in un seminterrato. Uomo abitudinario, meticoloso, la sua routine “è scolpita nella pietra”. Ma improvvisamente quella routine viene scombinata. La sua ragazza Cass (mai promossa a ruolo di fidanzata) viene sfrattata e chiede asilo nel seminterrato. Occasione, se non altro, per avviare una convivenza. Non solo. Un giorno, alla porta di casa, si presenta un adolescente, Brink, figlio di Lorna, con la quale Micah aveva avuto una storia al college. Il ragazzo – convinto che tra loro ci sia un legame – gli chiede pure lui ospitalità, essendo in crisi con la famiglia e con la scuola. A questo punto il rassicurante tran tran di Micah deve misurarsi con la vita vera, che non può più essere fraintesa con una quotidianità ripetitiva e, a suo modo, alienante. Ecco insorgere, allora, le domande sempre eluse e che l’autrice insinua nelle prime pagine: “Si sofferma mai a riflettere sulla sua vita? Su quale sia il senso, o lo scopo? Lo disturba pensare che probabilmente passerà i prossimi trenta o quarant’anni in questo modo?” Inevitabile, alla fine del libro, non chiedersi quanto Micah ci sia dentro di noi.
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Viene da chiedersi cosa passi per la testa a uno come Micah Mortimer. Vive solo, se ne sta per conto proprio, la sua routine è scolpita nella pietra. Ogni mattina alle sette e un quarto va a correre. Verso le dieci, dieci e mezzo, attacca sul tetto della Kia l’insegna magnetica TECNICA-MENTE. Non esce a orari fissi, ma sembra non passi giorno senza che qualche cliente richieda i suoi servizi. Arrotonda facendo il custode, e di pomeriggio a volte lo si vede aggirarsi per il condominio. Spazza il vialetto, scuote lo zerbino dell’entrata, o parla con un idraulico. Il lunedì mette fuori i bidoni dei rifiuti indifferenziati per il ritiro del martedì, il mercoledì quelli dei materiali riciclabili. Alle dieci di sera o giù di lì, le tre finestrelle dietro l’aiuola condominiale si oscurano. (Il suo appartamento è nel seminterrato, e probabilmente non è molto luminoso.)
È un uomo alto e ossuto, poco più che quarantenne, con una postura non particolarmente buona: la testa un po’ protesa in avanti, le spalle un po’ curve. I capelli sono neri, ma quando non si rade per un giorno si vedono i baffi grigi. Occhi azzurri, sopracciglia folte, guance scavate e la bocca che sembra contratta. È sempre in jeans e maglietta o felpa, a seconda della stagione; quando fa davvero freddo si mette un giubbotto di pelle marrone talmente liso che in alcuni punti sembra cancellato. Scarpe marroni dalla punta arrotondata, consumate e modeste, come le scarpe di un ragazzino. Anche per correre usa semplici sneakers bianco sporco, non quelle che usano quasi tutti i podisti con le strisce fluorescenti e le suole in gel, e vecchi jeans tagliati al ginocchio.
Ha una ragazza, ma fanno vite sostanzialmente separate. Ogni tanto la si vede entrare dalla porta sul retro con il sacchetto di un take-away, e a volte durante il weekend al mattino partono a bordo della Kia senza l’insegna TECNICA-MENTE. Non sembra avere amici maschi. Con gli inquilini è cordiale, ma niente di più. Quando lo incontrano lo salutano, e lui fa un cenno gioviale con la testa e saluta con la mano, spesso senza aprire bocca. Nessuno sa se abbia una famiglia.
Il condominio si trova a Govans, nel nord di Baltimora, un piccolo cubo in mattoni a due piani a est di York Road, con un ristorante specializzato in trote di lago sulla destra e un negozio di vestiti usati sulla sinistra. Un minuscolo parcheggio dietro. Un minuscolo prato davanti. Un porticato del tutto incongruo all’ingresso – in realtà, non più di un sopralzo con qualche gradino in cemento – con un dondolo di legno pieno di schegge che nessuno usa mai e una fila verticale di campanelli sul lato della misera porta bianca.
Si sofferma mai a riflettere sulla sua vita? Su quale sia il senso, o lo scopo? Lo disturba pensare che probabilmente passerà i prossimi trenta o quarant’anni in questo modo? Nessuno lo sa, e quasi certamente nessuno gliel’ha mai chiesto.
[…]
Quando era al volante, Micah amava fingere di essere osservato da un sistema di sorveglianza onniveggente. Dio del Traffico, lo chiamava. Il dio del Traffico era coadiuvato da una squadra di uomini in maniche di camicia muniti di visori verdi che spesso scambiavano commenti sulla perfezione della guida di Micah. «Avete notato che mette la freccia anche quando non ha dietro nessuno?» dicevano. Micah usava sempre la freccia, sempre, perfino nel parcheggio di casa. Quando accelerava, immaginava di avere un uovo sotto il pedale; quando frenava, lo faceva in modo molto graduale, quasi impercettibile. E se un altro automobilista decideva all’ultimo minuto di spostarsi nella corsia di Micah, poteva contare sul fatto che lui rallentasse e alzasse la mano sinistra in un gesto cortese, prego, si accomodi, dopo di lei. «Visto?» si dicevano l’un l’altro gli aiutanti del dio del Traffico. «Questo ragazzo ha dei modi impeccabili.»
Attenuava la noia, almeno un po’.
Svoltò in Tehleydale Road e parcheggiò lungo il marciapiede. Ma proprio quando stava per prendere la borsa, squillò il cellulare. Lo tirò fuori dal taschino e spostò gli occhiali sulla fronte per vedere lo schermo. CASSIA SLADE. Strano. Cass era la sua amica (si rifiutava di chiamare «ragazza» una donna di quasi quarant’anni), ma di solito non gli telefonava mai a quell’ora. In quel momento avrebbe dovuto essere al lavoro, accerchiata da scolaretti di quarta. «Cos’è successo?» chiese.
«Mi sfrattano.»
«Cosa?»
«Mi sfrattano dall’appartamento.» Aveva una voce bassa e monocorde che a Micah piaceva, ma vi sentì una tensione rivelatrice.
«Com’è possibile che ti sfrattino?» le chiese. «Non hai neanche un contratto d’affitto.»
«No, ma Nan è passata questa mattina senza nemmeno avvertirmi» disse. Nan era l’inquilina ufficiale, che era andata a stare con il suo fidanzato vicino al porto, ma non aveva mai rinunciato all’appartamento, cosa che Micah capiva, ma Cass no. Non bisogna chiudersi tutte le vie d’uscita. «Me la sono trovata alla porta, così, senza preavviso» disse Cass, «quindi non ho avuto il tempo di nascondere il gatto.»
«Ah, il gatto» disse Micah.
«Speravo che non si facesse vedere. Cercavo di bloccarle la visuale e speravo che non volesse entrare, e invece mi fa: ‘Volevo solo prendermi il... e quello, cos’è?’ e ha guardato dietro di me, verso la porta della cucina, dove c’era Whiskers in piena vista, e sai benissimo che lui odia gli estranei. Ho cercato di dirle che non avevo pianificato di prendere un gatto. Le ho raccontato di quando l’ho trovato nel pozzetto davanti alla finestra. Ma lei ha detto: ‘Non è questo il punto, lo sai che ho una fortissima allergia al pelo di gatto. Mi basta anche solo respirare in una stanza in cui è passato un gatto un mese prima, basta un solo pelo di gatto nella moquette che... oh Dio, sento già che mi si chiude la gola!’ Poi è uscita di casa e quando ho cercato di seguirla mi ha fatto cenno di stare lontana. ‘Aspetta!’ le ho detto. Ma lei mi ha risposto: ‘Mi farò viva’, e tu sai benissimo cosa vuol dire.»
«No che non lo so» disse Micah. «Ti chiamerà stasera, te ne dirà quattro, tu ti scuserai e finirà lì. Tranne che dovrai liberarti di Whiskers, mi sa.»
«Ma non posso liberarmi di Whiskers! Proprio adesso che comincia a sentirsi a casa.»
Micah considerava Cass una donna pratica, per questo la faccenda del gatto l’aveva sempre stupito.
«Senti» le disse. «Stai mettendo il carro davanti ai buoi. Ti ha solo detto che si farà viva.»
«Dove potrei trasferirmi?» disse Cass.
«Nessuno ha detto che devi trasferirti.»
«Non ancora» precisò lei.
«Be’, tu aspetta che te lo dica, prima di cominciare a fare le valigie, d’accordo?»
«Non è facile trovare un posto che accetti gli animali» continuò Cass come se lui non avesse parlato. «E se rimango senza un tetto sulla testa?»
«Dai, Cass, ci sono centinaia di persone che vivono con animali domestici in tutta Baltimora. Troverai un altro posto, fidati.»
Seguì il silenzio. In sottofondo Micah sentiva voci di bambini, ma era un suono lontano. Doveva essere nel cortile per l’intervallo.
«Cass?»
«Be’, grazie per avermi ascoltata» tagliò corto, e chiuse.
Micah rimase a guardare lo schermo un attimo, prima di rimettersi gli occhiali sul naso e di riporre il telefono.
[da Un ragazzo sulla soglia di Anne Tyler, trad. di Laura Pignatti, Guanda, 2020]
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