Angie Thomas e il coraggio della verità

Luigi Oliveto

14/09/2017

In America è diventato un caso editoriale. Si tratta di “The Hate U Give. Il coraggio della verità”, romanzo d’esordio della giovane Angie Thomas, che affronta il tema sempre attuale del razzismo. Il titolo è una citazione dal rapper Tupac Shakur: “The Hate U Give Little Infants Fukcks Everybodys” (“L’odio che rovesciate sui ragazzini [neri] fotte tutti”). Angie Thomas, anch’essa donna di colore, si è ispirata a un fatto di cronaca. Quando, a Oakland, la notte di capodanno del 2009, un poliziotto uccise un ragazzo nero disarmato. Nel romanzo, la protagonista è Starr, una adolescente che si trova a vivere in due mondi: il quartiere di neri in cui abita e imperversa la malavita, e la scuola prestigiosa che frequenta (suo madre vuole per lei un futuro che la riscatti dalle modeste origini). Non è facile per Starr conciliare questi due universi così distanti, soprattutto dopo che lei ha assistito a un drammatico episodio: l’uccisione da parte della polizia di Khalil, il suo più grande amico. Come nel fatto vero di Oakland, Khalil era disarmato e non vi era motivo alcuno che ne giustificasse la morte per mano armata di un poliziotto. Nel quartiere dei neri esplodono manifestazioni di protesta, scontri, paure, tensioni. Starr si ritrova nella difficile situazione di essere l’unica testimone dell’accaduto. Ed è perciò da lei che può dipendere il corso della vicenda giudiziaria, ma anche ciò che sicuramente andrà a ritorcersi contro la sua vita, la sua famiglia, la comunità nera del quartiere. Conosce così il tormento delle scelte difficili, quale prezzo richieda il coraggio, l’amore per la giustizia e la libertà.
 
 
Khalil è bello. Punto. E io un tempo ci facevo il bagno insieme. Non in quel senso, ma quando eravamo piccoli, e ridevamo perché lui aveva il pisellino e io quella che sua nonna chiamava pisellina. Giuro che non c’era niente di perverso. Khalil mi abbraccia, e profuma di sapone e borotalco. «Come stai? È un pezzo che non ti si vede.» Mi lascia andare. «Non un messaggio, niente. Dove sei sparita?» «La scuola e la squadra di basket mi tengono occupata» rispondo. «Ma sono sempre al negozio. Sei tu quello che non si fa più vedere.» Le fossette scompaiono. Si strofina il naso, come fa sempre prima di dire una bugia. «Ho avuto da fare.» Certo. Le Jordan nuove di pacca, la maglietta bianchissima, i brillantini alle orecchie. Quando sei cresciuto a Garden Heights, conosci il vero significato dell’espressione “avere da fare”. Cazzo. Vorrei che non fossero quelle, le cose che ha da fare. Non so se ho più voglia di piangere o prenderlo a schiaffi. Ma il modo in cui mi guarda con quei suoi occhi nocciola mi rende difficile restare arrabbiata. Mi sembra di avere di nuovo dieci anni, di essere tornata al mio primo bacio, nello scantinato della chiesa del Tempio di Cristo durante le vacanze estive.
[…]
Lui impreca sottovoce, abbassa il volume di Tupac e accosta l’Impala al marciapiede. Stiamo percorrendo la Carnation, dove molte delle case sono abbandonate e metà dei lampioni sfondati. Ci siamo soltanto noi e il poliziotto. Khalil spegne il motore. «Chissà cosa vuole adesso ’sto cretino.» L’agente parcheggia e accende gli abbaglianti. Batto le palpebre per non farmi accecare. Ricordo un’altra cosa che mi disse mio padre. Se c’è qualcuno con te, spera solo che non abbia addosso nulla, perché in caso contrario vi arresteranno entrambi. «K, in macchina non hai niente, vero?» chiedo. Khalil studia il poliziotto dallo specchietto. «Nah.» L’agente si avvicina alla sua portiera e picchietta sul vetro. Khalil lo abbassa con la manovella. Come se gli abbaglianti non bastassero, ci punta in faccia la sua torcia. «Patente, libretto e assicurazione.» Khalil infrange la prima regola: non fa quello che gli ha detto il poliziotto. «Perché ci ha fermati?» «Patente, libretto e assicurazione.» «Le ho chiesto, perché ci ha fermati?» «Khalil,» imploro «fa’ quello che dice.» Khalil emette un gemito e si sfila di tasca il portafoglio. L’agente segue i suoi movimenti con la torcia. Sento il cuore battermi forte nel petto, ma nella mia mente riecheggiano le istruzioni di mio padre: Guarda bene in faccia il poliziotto. Se riesci a ricordare il numero di distintivo, tanto meglio. Mentre il raggio della torcia segue le mani di Khalil leggo i numeri sul distintivo dell’agente: uno-quindici. È bianco, sulla quarantina, capelli castani a spazzola e una cicatrice sottile sul labbro superiore. Khalil gli consegna i documenti. Uno-Quindici li controlla. «Da dove venite?» «Nunya» ribatte Khalil. In slang vuol dire “Non sono affari tuoi”. «Perché mi ha fermato?» «Il suo fanalino di coda è rotto.» «Allora, mi fa una multa o che?» domanda. «Sai una cosa, furbacchione? Scendi dall’auto.» «Insomma, mi faccia questa multa e...» «Fuori dall’auto! Mani in alto e bene in vista.» Khalil fa per scendere e alza le mani. Uno-Quindici lo strattona per un braccio, poi lo immobilizza contro la portiera posteriore. Fatico a trovare la voce. «Non voleva...» «Mani sul cruscotto!» latra l’agente, rivolto a me. «Non ti muovere!» Obbedisco, ma mi tremano troppo le mani per restare immobile. Lui perquisisce Khalil. «Okay, spiritosone, vediamo cos’hai addosso.» «Non troverà niente.» Ripete la perquisizione altre due volte, ma rimane a mani vuote. «Tu resta qui» ordina. «E tu,» soggiunge guardandomi attraverso il finestrino «non ti muovere.» Non riesco nemmeno ad annuire. L’agente torna alla sua auto. I miei genitori non mi hanno insegnato ad avere paura dei poliziotti, ma solo a non commettere sciocchezze in loro presenza. Mi hanno insegnato che muoversi quando un poliziotto ti dà le spalle è una sciocchezza. Khalil lo fa. Si piazza davanti alla sua portiera. Compiere un movimento improvviso è una sciocchezza. Khalil lo fa. Apre la portiera. «Starr, tutto be...» Bam! Uno. Il corpo di Khalil sobbalza. Un fiotto di sangue gli schizza dalla schiena. Si aggrappa alla portiera per reggersi in piedi. Bam! Due. Khalil boccheggia. Bam! Tre. Khalil mi guarda, attonito. Cade a terra. Io ho di nuovo dieci anni, e ho davanti Natasha. Un urlo lancinante mi sorge dalle viscere, mi esplode in gola, usa ogni particella di me per farsi udire. L’ istinto mi dice di non muovermi, ma ogni altra cosa mi intima di andare a vedere come sta Khalil. Balzo fuori dall’Impala e mi precipito sul lato opposto. Khalil fissa il cielo come se sperasse di vedere Dio. La sua bocca è aperta, come per gridare. Il mio grido è abbastanza forte per entrambi. «No, no, no» è tutto quello che riesco a dire, come se avessi solo un anno e quella fosse l’unica parola che conosco. Non so bene come, ma finisco a terra al suo fianco. Mia madre mi ha detto che quando sparano a qualcuno bisogna provare a fermare l’emorragia, ma c’è sangue dappertutto. Troppo sangue. «No, no, no.» Khalil non si muove. Non dice una parola. Non mi guarda nemmeno. Il suo corpo si irrigidisce, e un attimo dopo se n’è andato. Spero che lo veda, Dio.
Qualcun altro sta urlando. Batto gli occhi velati di lacrime. L’agente Uno-Quindici mi sta gridando qualcosa, puntandomi contro la stessa pistola con cui ha ucciso il mio amico. Alzo le mani.
 
[da The Hate U Give. Il coraggio della verità di Angie Thomas, trad. di Stefano Bortolussi, Giunti, 2017]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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