“Nessuna arte è sommersa nell’io; al contrario, nell’arte l’io dimentica sé stesso per rispondere alle esigenze della cosa vista e della cosa che si sta creando”. Così diceva Flannery O’Connor, con il suo indelebile “Nel territorio del diavolo”. Nella vita di Laura Mancinelli la cosa vista era la sua opera e la sua vita di apprezzata germanista, capace di esaltare la cultura tedesca medievale come nessun altro prima e dopo di lei. La cosa che si sta creando è invece la sua opera di scrittrice, anzi si potrebbe dire di narratrice e novellatrice di un Medioevo che sembra vero, come si legge sulla quarta di copertina dell’edizione Einaudi de “I dodici abati di Challant” (1981): la storia è quella di dodici abati che ricevono l’incarico di sorvegliare un feudatario che ha ereditato un castello con la clausola di mantener fede all’obbligo di castità e che moriranno uno dopo l’altro in modo assai singolare. Quel Medioevo sembra vero perché effettivamente lo è: in quel medioevo si vive, si gode, si soffre e si mangia (cercate, a proposito di sommersi, i libri di ricette medievali o i cibi descritti nelle opere della Mancinelli, vi divertirete). È l’unione perfetta tra la cosa vista, quello studio costante e originale che culmina con l’opera “Da Carlo Magno a Lutero. La letteratura tedesca medievale” del 1996 e la cosa creata, ovvero la narrazione letteraria. Ci sono pochi scrittori in Italia dove questa simbiosi tra saggistica e letteratura si sia realizzata così felicemente, tanto che la costola narrativa è stata capace prima di portarsi al pari di quella scientifica e poi di influenzarla, al punto che si disse del suo saggio più rappresentativo qualcosa di assai insolito quando si parla di uno studio di quella portata, ovvero che mostrava un vero e proprio, avvincente, andamento narrativo. E certo per la nostra non rappresentava un’offesa, ma una decorazione di guerra.
Ne è un esempio “Gli occhi dell’imperatore”, con il personaggio dell’avventuroso poeta e musico Tannhäuser, figura quanto mai affascinante del Duecento tedesco: la letteratura entra nel saggio e viceversa. Leggetelo in parallelo con “Da Carlo Magno a Lutero”: non molto si sa della vita reale di Tannhäuser, dei suoi viaggi in paesi lontani, dei suoi molti amori, della partecipazione alle crociate (avrà davvero preso parte controvoglia alla crociata guidata da Federico II nel 1228-1229?). Ecco allora che il romanzo viene in soccorso della storia come la cavalleria: è la fulgida miniatura che illumina il codice spento e polveroso, colma i vuoti temporali, getta i ponti tra le frammentarie informazioni come si fa tra le isole di un frastagliato arcipelago, fornisce carne e sangue alla cronaca asettica. Tannhäuser che rappresentava per Wagner un eroe romantico (perfino Ridley Scott in “Blade Runner” lo cita nel famoso monologo “ne ho viste cose che voi umani…”) è per la Mancinelli un poeta maledetto, capace di irretire mille donne, compresa una principessa persiana, compresa Venere in persona. D’altronde, pare fosse molto attraente. Lui scrive di sé stesso “Io sono un uomo tormentato, che non può fermarsi mai: oggi è qui e domani là. Sempre dovrò vivere così e domandarmi ansioso, – per quanto allegro io canti – la sera e la mattina dove mi porti il vento e come tirare avanti in mare e come salvar la vita ora per ora”, lei lo riecheggia e lo amplifica in capo ad un’eco secolare “Tannhäuser guardava le gemme di Marzo pronte a schiudersi sui rami dei mandorli...Nessuno è più triste dell’uomo che non sa essere né felice né infelice-pensava- nessuno è più infelice dell’uomo a cui negato è con il riso anche il pianto”. E quando il cavaliere medievale scrive davvero che d’un tratto S’è rotta la corda del violino, è la studiosa che per prima cerca di rispondergli quasi psicanalizzandolo ed interpretando che coerentemente alla sua vocazione di poeta maledetto, alla sua viola si spezza la corda, sì ch’egli non può più suonare e comporre; ma è alla fine la personalità di scrittrice a prendere il sopravvento, facendo del motivo dell’impossibilità di suonare e di comporre a causa di un maleficio il motivo dominante del romanzo “Gli occhi dell’imperatore”.
Solo la letteratura infatti può narrare l’indecifrabile accaduto, riesumarlo e mostrare l’elaborazione dell’evento e forse anche una possibile via d’uscita: “Stefano, io non posso più suonare. La mala jattura ha colpito la mia mano destra, che tutto può fare tranne che toccare le corde dell’arpa. Chi ha fatto questo signore? –chiese vivacemente il pirata. /Un a vecchia che non conosco, qualche anno fa, mentre si tornava dalla caccia in brigata di amici. E non so perché. /Una fattura si può disfare, signore. /Non questa.../ il cavaliere tacque. Tacevano tutti assorti nel pensiero di quella mala jattura che aveva colpito Tannhäuser”. E poi ci sono le donne, ciascuna inchiodata alla storia da una bellissima frase che sembra più un epitaffio, quasi una Spoon River medievale. Per Tannhäuser ad esempio c’è Bianca, la fanciulla che aveva avuto in sorte un’ora d’amore e molti anni di desiderio, promessa sposa dell’Imperatore e che lui deve scortare per incarico di quest’ultimo. Ma ci sono altre molte donne nelle storie della Mancinelli, donne abili e intraprendenti, furbe, che danno agli uomini l’illusione di comandare. Ne “il miracolo di santa Odilia” di Odilie ce ne sono due: la prima badessa del convento, tutta zelo e santità, ma che santa non fu mai (perché non fosse santa, era difficile dirlo il paradiso doveva esserselo conquistato di sicuro. Ma miracoli, niente). Qui le pennellate atte a descrivere un personaggio in poche righe sono magistrali: “Sapeva benissimo che tra le mura del convento la attendeva una vita più tranquilla…se fosse andata sposa a qualche signore dei dintorni, avrebbe corso il rischio di essere ripudiata con pretesto qualsiasi, e aveva la certezza di dover sopportare una gravidanza l’anno, mentre i giochi d’amore il suo signore e marito li avrebbe fatti con qualche altra donna”. Sembra di sentire la suor Teodora di Calvino: “Dovete compatire: si è ragazze di campagna, ancorché nobili, vissute sempre ritirate, in sperduti castelli e poi in conventi; fuor che funzioni religiose, tridui, novene, lavori dei campi, trebbiature, vendemmie, fustigazioni di servi, incesti, incendi, impiccagioni, invasioni d’eserciti, saccheggi, stupri, pestilenze, noi non si è visto niente. Cosa può sapere del mondo una povera suora?”. La seconda Odilia è invece la nipote, che le succede alla morte, bella e amabile a tal punto, che tutto lascia supporre che il velo le sarebbe pesato più di una corazza. Però sarà proprio lei a compiere alla fine del libro l’unico vero miracolo, un miracolo tutto umano. E poi ci sono le donne capaci di trame, complotti e maneggi familiari orditi nell’ombra, dipinte pregevolmente in quell’affresco che è “La sacra rappresentazione ovvero Come il forte di Exilles fu conquistato ai francesi” del 2001, ambientato gli albori del 1700 quando la piccola comunità di Exilles è in fermento per la preparazione di una Sacra Rappresentazione in onore di san Rocco. In questo piccolo centro gli uomini, probi cittadini e stimati padri di famiglia, scivolano nottetempo lungo i muri senza lume diretti verso i loro amori clandestini a qualche fienile. Le mogli, pensano loro, sono buone solo per fare figli. Sembra di leggere il dialogo tra il principe e il confessore nel Gattopardo: “Ma che volete da me? Sono un uomo vigoroso. E come posso accontentarmi di una donna che a letto si fa il segno della croce prima di ogni abbraccio, e che dopo non sa dire che "Gesummaria"? Sette figli ho avuto da lei, sette, e sapete che vi dico, padre? Non ho mai visto il suo ombelico”.
Insomma ecco una scrittrice con due identità perfettamente fuse in un corpo tormentato, che conobbe i tormenti della sclerosi e presto perse l’uso delle gambe, e in un’anima altrettanto sofferente che oltre alla malattia in poco tempo affrontò la perdita della madre e quella del compagno di vita. Proprio forse per reagire a tanta sofferenza trovò nella scrittura una valvola di sfogo, come dimostra il coincidere di certi suoi felici momenti creativi con le situazioni più dolorose della sua esistenza. Anche per la O’Connor, in qualche modo, la vita fu così. Morì presto, a trentanove anni, a causa di una malattia del sangue, la stessa che aveva ucciso anche suo padre: si dice che addentrarsi nel difficile mondo della scrittura di romanzi, saggi e racconti era il suo modo speciale di celebrare il dono della vita e tramandare ciò che aveva speso nei suoi intensi studi. In un modo simile, Laura Mancinelli è stata una persona capace di vedere, creare e fare felice ritorno, come era accaduto al suo amato Tannhäuser, da quel territorio del diavolo che spesso è la scrittura. Un ritorno che possiamo coronare in ogni momento aprendo uno dei suoi libri, e scoprendolo ogni volta migliore a distanza di anni come solo accade ai classici.
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