Diciamo la verità: l'ambizione dello scrittore di racconti è quella di sfiorare – se non proprio raggiungere – la perfezione, che sia per struttura, per tecnica o per stile, o nel migliore dei casi tutte e tre queste cose assieme. Magari intende dar vita a qualcosa che possa inscriversi nel campo dell'universale, qualcosa che non deve per forza piacere ma colpire, quello sì, lasciare il segno, incidere un'emozione sulla pelle di chi legge. Del resto non sono moltissimi i racconti che possono annoverarsi in questa ristretta categoria, forse Un giorno ideale per i pescibanana di Salinger (ne parleremo sicuramente in uno dei prossimi appuntamenti) o Il nuotatore di John Cheever (idem) e qualche altro, scegliete in base ai vostri gusti. Ma credo che Lucia Berlin, abilissima scrittrice di short stories mai fin troppo celebrata, sia riuscita a creare un piccolo capolavoro con Punto di vista, il racconto di cui parliamo oggi (“piccolo” per dimensioni, non certo per intenzioni, sia chiaro).
Non è assolutamente prerogativa di molti riuscire a scrivere un racconto che sia allo stesso tempo una lezione di letteratura e una lezione di scrittura, una lezione che non troverete in nessuno dei tanti corsi che si tengono oggi, ma solo in queste poche pagine che ci ha regalato l'autrice americana. La prima riga recita così: “Immaginate il racconto di Cechov Angoscia narrato in prima persona”. Il racconto è appena cominciato e già noi siamo catturati da un gorgo metanarrativo che ci trascina nell'immaginario cechoviano, coi suoi personaggi disperati e commoventi, di cui il vetturino Jona Potàpov – che ha appena perso un figlio – è un esempio eccellente. Le righe che seguono – una decina in tutto – ci dicono che quel racconto di Cechov non è affatto in prima, ma è in terza persona, ed è propria quella “voce imparziale” (per usare le parole della Berlin) che ci fa entrare nel dolore del personaggio. Certo dipende dall'intensità della voce che si usa, e ciò non significa che la scelta della terza persona sia migliore della prima (d'altra parte alcuni autori, come Dostoevskij, attraverso un io narrante intimo e profondo sono riusciti a toccare vette altissime), ma semplicemente che Cechov, nella sua ricerca dell'oggettività, riusciva attraverso il narratore onnisciente a riferire i sentimenti dei personaggi in maniera nitida e a farci empatizzare con loro. Ecco dunque la breve e utilissima lezione di letteratura che apre Punto di vista.
Poi la Berlin ci presenta la sua protagonista, dicendoci la sua età, la sua professione, le sue abitudini, tutto attraverso la prima persona. No, non funziona, ci dice subito dopo. In questo caso, meglio usare la terza persona e andare dritti all'aspetto abitudinario: «Ogni domenica, dopo essere passata in lavanderia e al supermercato, comprava l'edizione domenicale del “Chronicle”». Ora siete disposti ad ascoltare tutti i dettagli, perché “Pensereste, diavolo, se la narratrice ritiene che ci sia qualcosa da scrivere a proposito di questa creatura scialba dev'essere così. Continuiamo a leggere, vediamo cosa succede”. A questo punto l'autrice ci rivela che il racconto non è ancora stato scritto, ma è in divenire nel momento stesso in cui leggiamo. Aggiunge qualche altro dettaglio per renderci più credibile Henrietta, il suo personaggio, per esempio dicendoci che per mangiare si serve di “finissime posate italiane in massiccio acciaio inossidabile”, per confessarci poco dopo che lei stessa utilizza quel tipo di posate. Compie ora una rapida digressione e ci racconta un episodio divertente che le è accaduto, un banale equivoco, cosicché ci ritroviamo a familiarizzare – oltre che con Henrietta – pure con lei. Torna al suo personaggio e affastella altri dettagli, finché scopriamo che è innamorata del dottor B., per cui lavora come infermiera. Giunti fin qui sarà necessario sdoppiare l'attenzione, poiché esistono due diversi piani: da una parte quello sui cui si materializza a poco a poco Henrietta, il personaggio di fantasia, e dall'altra quello in cui si muove Lucia Berlin, la scrittrice. Il nefrologo su cui ha ricalcato il personaggio è lo stesso per cui lavorava lei un tempo, ma l'autrice ci fa sapere che in realtà non ne è mai stata innamorata; però Shirley, la ragazza che lavorava lì prima di lei, oh lei sì che ne era innamorata, al punto da fargli numerosi regali.
Gli scrittori, si sa, rubano qua e là dalla vita degli altri. Quando ci ripenso, mi fa sempre ridere quella battuta del film Sbatti il mostro in prima pagina di Marco Bellocchio, dove Bizanti, il cinico capo redattore di un giornale (uno splendido Gian Maria Volonté) pronuncia questa battuta subito dopo aver licenziato Roveda, un giornalista dall'anima pura che vorrebbe raccontare una verità senza compromessi: “Finiremo tutti nel suo primo libro”. Proprio così. L'autrice utilizza uno di quei regali (veri) – “un sedile da bicicletta peloso in pelle di montone” – per farne il climax del racconto (inventato), tracciando il momento in cui Henrietta viene schermita dal dottor B., “il momento in cui lei si rende conto di quanto il dottore la disprezzi, di quanto sia penoso l'amore che prova per lui”. Ci sono poi altre caratteristiche di Shirley che la Berlin attribuisce a Henrietta e che diventano le sue abitudini, soprattutto domenicali: Cosa mangia? Cosa guarda in televisione? Cosa farà in quel lunedì tanto atteso, quando il dottore che non la degna della minima considerazione arriverà a esserne persino infastidito? Dopo aver visto La signora in giallo, si fa un bagno rilassante, poi sorseggia una tazza di camomilla, infine sente dei rumori fuori dalla finestra: un'auto che sgomma, una portiera che sbatte, qualcuno che si avvicina alla cabina telefonica. “Henrietta spegne la luce, alza le veneziane vicino al letto, solo di poco. Il vetro della finestra è appannato”. La musica di Lester Young che arriva dall'autoradio. Nella cabina c'è un uomo che sta telefonando e si asciuga la fronte con un fazzoletto.
E ora il vero colpo di genio, il gioco sul punto di vista del tutto inatteso eppure annunciato già dal titolo: la narrazione smette di essere in terza per far posto alla prima persona; d'improvviso l'autrice coincide con Henrietta, vi si sovrappone in maniera magistrale. “Mi appoggio contro il davanzale freddo e lo guardo”. Ascolta il sassofono di Lester Young e scrive una parola nel vapore del vetro. Quale? Non lo sapremo mai, perché la cancella “prima che qualcuno possa vederla”.
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