Tutti si perdono, almeno una volta nella vita. Alcuni nella speranza di ritrovare poi la strada, altri per perdere tempo, altri ancora, forse del tutto inconsciamente, per cercare qualcosa il cui nome sfugge loro tra le dita, come la sabbia calda di un deserto lontano. Tutti abbiamo perso qualcosa, qualcuno, l’ultima cosa che ho perso è stata un mazzo di chiavi, non so più dove l’ho messo, in ogni caso che importa, tutti alla fine perdiamo tutto. Forse è perché ci riempie, ci lenisce, ci distrae, tentare di recuperare ciò che è stato perduto, ci riporta all’infanzia, quando ancora qualcuno ci gratificava, con parole e carezze. Vaghiamo come stelle impazzite per sentire ancora quel calore, sommerso ormai, nel vano tentativo di bagnarsi appena le labbra di quell’acqua sacra, trovando sollievo nel dissetarsi, e dopo essersi accorti di aver bevuto anche l’ultima lacrima, ripartire. Siamo nomadi in cerca d’acqua, e di nomadi parleranno i racconti. Di anime alla ricerca...
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Le lucciole in primavera non si fanno vedere, l’aria è dolce ma ancora rarefatta, ci sono molti gatti e troppi uomini in giro, che poi l’afa estiva si porta via. Una piccola lucciola danza sola però, sotto il porticato. “È ancora presto per le lucciole, perché ti trovi qui?” le chiede Tonino, che non riesce a prendere sonno nel suo letto per colpa dello stomaco, brucia come un bosco in fiamme. La lucciola non risponde a Tonino, ma atterra sul tavolo di legno. “Lo so che se potessi, mi diresti qualcosa”. Poi Tonino la segue mentre lei torna a volteggiare come un piccolo fuoco fatuo nella notte scura, e al buio e col rumore dei fili d’erba che suonano come chitarre, Tonino si abbandona.
Nella camera sua moglie si sveglia tra le lenzuola ruvide e sa già che non c’è nessuno accanto a lei, non capisce il perché di tutta quell’angoscia e malinconia, ma ormai ha smesso di chiedere, non le rimane che sperare che sotto il porticato, lontano dai muri sibilanti della casa, Tonino riesca a trovare un po’ di pace.
“Tonino che fai, dormi? Ti va di giocare un’ultima volta a briscola col tuo papà?” dice Vicì, ha in testa una coppola sgualcita e ride. “Oi pà, che occhi belli che hai stasera, non mi va di giocare a briscola, sei un imbroglione e vinci sempre tu, raccontami ancora del Venezuela, ho troppo lavoro da fare, me ne ricordo sempre meno”.
“Caracas luccica anche se niente lì dentro è oro, luccica perché le libellule e la rugiada riflettono il sole, perché la musica vive dentro le persone, l’odore della papaya e del mango esce dalle finestre delle cucine, dove le donne vestite di bianco ballano scalze, aspettando gli uomini per tornare a fare l’amore e i cani, randagi come i ragazzi e le ragazze, guardano la luna, così vicina da sembrare un cuscino. Abbiamo deciso di partire, io e lo zio, una sera d’estate, perché la guerra non ci piaceva, non che ci facesse paura, ci sembrava solo sciocca, eravamo troppo giovani per buttare via tutte le nostre velleità, lui ha preso la sua valigia rossa e io la mia verde e ci siamo imbarcati sulla prima nave che salpava da Tropea. La notte in viaggio ho visto una sirena prima che arrivasse il temporale… abbiamo aperto una panetteria nel centro di Caracas, ma queste mani ormai non sanno più impastare e la mia vecchia testa si è mangiata tutto lo spagnolo che avevo imparato, a volte vorrei poter ascoltare ancora la sua melodia roca, vorrei ancora poter sentire la farina tra le dita. Adesso devo andare Tonino mio, dai un bacio alla mamma per me, la tristezza le passerà. Non lasciare da solo tuo fratello e neanche la tua famiglia, io devo tornare all’acqua perché è lì che sono nato e a lei appartengo”.
“Papà Lavinia è arrabbiata con me, cosa devo fare?”.
“Niente Tonì, dalle tempo”.
“Va bene papà ciao, ci vediamo”.
Vicì si alzò dalla sedia col suo bastone ricurvo e girandosi diventò una rondine, e Tonino fu solo in mezzo al blu, seduto sui ciottoli caldi della spiaggia a guardare il mare. Il letto è ancora sfatto, le medicine sul comodino, il bastone appoggiato alla parete, i vestiti nell’armadio, le scarpe in cucina, dove le lascia anche Tonino, dove le lascio anche io. Chi si prenderà cura dei pomodori? Vorrei saperla lavorare la terra, ma sono una stella di mare come te, ho bisogno dell’acqua per sopravvivere, le piante sentiranno che non sono più le tue mani ad accarezzarle, chissà se appassiranno, io canterò loro con la voce che mi rimane. Anche le sedie dei tavoli di plastica sotto la tettoia non sentiranno più il tuo peso, lì avrei voluto mangiare con te un ultimo gelato. Ti sei arreso Vicì, ma io ti voglio bene lo stesso, vorrei tornare alla casa in campagna, quella che hai costruito tu, e nel campo che porta fino al mare piantare l'aloe, ti sei a lungo abbarbicato alla vita, adesso lo farà lei per te. Orgoglioso e testardo, te ne sei andato da solo, per non portare dolore, mentre tutti erano giù al bar a prendere un caffè, il tuo corpo ora è tra le montagne, vede scorrere il fiume gelido fino alla spiaggia, ti abbiamo salutato lì e poi siamo andati a cena, abbiamo mangiato pizza e birra.
Rosina guarda l’orizzonte dal balcone, aspettando che il vento le accarezzi le rughe e le gambe stanche, piangendo il suo amore. Mentre si infila la camicia da notte pulita e sta per entrare dentro il letto, nel soggiorno, dove sul tavolo di legno c’è la foto di Vicì da giovane, attacca a suonare l’allarme, così zoppicando Rosina va per spegnerlo. Dopo pochi minuti, l’allarme riprende a suonare. “Oi Vì e basta, e fammi dormire nu poco”. Rosina alza la testa al soffitto e l’allarme si spegne. Lei si siede sul letto. “Grazie Vicì, buonanotte”.