Alla marcia su Roma si parlava (anche) toscano

Alessandro Orlandini

30/11/2022

Alla marcia su Roma si parlava molto in toscano, nelle sue varie inflessioni. Insieme agli emiliani e ai romagnoli, i fascisti fiorentini e pistoiesi, lucchesi, carrarini e pisani, senesi, aretini e grossetani furono infatti i più numerosi fra quanti, rispondendo al piano eversivo di Mussolini, cercarono di calare sulla capitale il 28 ottobre 1922. La vicinanza geografica favorì il numero elevato. I treni costituirono il principale mezzo di spostamento per due colonne, quella al comando di Dino Perrone Compagni che si diresse a Civitavecchia, e quella al comando di Ulisse Igliori, indirizzata a Monterotondo nel pressi di Mentana. Il controllo del territorio, assunto dalle camicie nere in due anni di aggressioni, spedizioni punitive, bastonature, uccisioni, incendi, devastazioni, scioglimenti forzati di consigli comunali e provinciali ai danni degli avversari politici, quasi sempre con la complicità di carabinieri, polizia, guardia regia, esercito, magistratura, e con l’appoggio finanziario e logistico della grande proprietà terriera e di parte del mondo industriale, fu la base di partenza dell’impresa.
 
Una base consolidata fin dal giorno 27 da innumerevoli irruzioni in prefetture, caserme, uffici postali, stazioni ferroviarie senza incontrare resistenza per la sostanziale, generalizzata, e ormai reiterata, rinuncia dello Stato al monopolio nell’esercizio della violenza che la legge gli assegnava. Ma se è certo che, pur in mancanza di un numero esatto, i toscani che marciarono su Roma furono molti, più difficile è stabilire chi furono e a quali condizioni sociali appartenevano. Una serie di dati raccolti nella provincia di Siena, che sarà pubblicata sul numero CXXIX del “Bullettino senese di storia patria”, può offrire una risposta parziale, ma non priva di significato. Da caso di studio, come si suol dire.
 
Partiamo dalla sintesi dei fatti. Il 27 ottobre centinaia di camicie nere si concentrarono a Siena di fronte alla sede provinciale del PNF in piazza del Carmine. Di lì, nel tardo pomeriggio, si diressero alla Fortezza di S. Barbara e poi al Distretto militare di S. Chiara dove si impadronirono di trecento fucili, di quattro mitragliatrici e di munizionamento. Molti ufficiali dell’esercito e dei carabinieri collaborarono. O comunque non si opposero. Il prefetto, come tanti altri suoi colleghi in giro per l’Italia, si arrese con benevolenza. In sostanza, ciò che sarebbe stato presentato dalla retorica del fascismo al potere come un’insurrezione fu, anche a Siena come un po’ in tutto il Pese, un colpo di mano agevolato da chi avrebbe dovuto contrastarlo.
 
Nella notte la stazione ferroviaria si riempì di squadristi che salirono su un treno – molti altri montarono alle stazioni lungo il percorso per Chiusi – e partirono alla volta di Monterotondo. Superato lo sbarramento di Orte viaggiando sul binario dispari – l’altro era stato divelto dall’esercito in allerta per lo stato di assedio dichiarato dal governo Facta e poi non firmato dal re – il 28 arrivarono a destinazione. Carenza di viveri, freddo e pioggia furono gli unici veri nemici. L’attesa di dirigersi a Roma durò fino al 30 e si sbloccò solo quando, con Mussolini incaricato di formare un nuovo governo, venne rimosso ogni sbarramento militare a difesa della capitale. In testa alla colonna Igliori, i fascisti senesi entrarono in città e parteciparono alla sfilata di fronte al Quirinale. Il 31 tornarono a Siena, sempre in treno.
 
Dopo i fatti, veniamo ai protagonisti. Nella primavera del 1922 il PNF aveva in provincia di Siena 2.600 iscritti. Di questi 1.032 parteciparono alla marcia. Altri 899 rimasero a presidiare i centri urbani maggiori. La classifica dei partecipanti vide in testa il capoluogo (167), seguito da Montalcino (89), Montepulciano (85), Sovicille (79), Sinalunga (67), Poggibonsi (61), S. Gimignano (42), Abbadia San Salvatore (32), Rapolano (30), Trequanda (30). I fasci di frazione garantirono un afflusso importante in ogni comune, a dimostrazione della capillarità raggiunta dal movimento. La presenza o meno di leader fascisti autorevoli per influenza sociale può essere stata la causa di una maggiore o minore partecipazione dalle varie località. Più in generale si può notare l’effetto di reazione o di “mobilitazione secondaria”: un numero più consistente di marcianti venne da dove il socialismo era stato più forte e agguerrito. Ci furono comunque delle eccezioni, come Colle Val d’Elsa, Monticiano e Chiusdino.
 
Da un campione di 310 partecipanti alla marcia, raccolto negli uffici anagrafe di otto comuni rappresentativi di varie zone della provincia, dal capoluogo, alla Val d’Elsa, alla Val di Chiana, risultano i seguenti dati.
- L’età media fu di 24 anni e mezzo, composta in prevalenza da coloro che erano stati richiamati in guerra, ma anche da molti (39%) che erano nati dal 1900 in poi.
- Impiegati, insegnanti, commercianti, coltivatori diretti, ma soprattutto artigiani, ovvero gli appartenenti ai cosiddetti ceti medi, costituirono un’ampia maggioranza (48,8%), a conferma della politicizzazione e della radicalizzazione in senso nazionalista e antisocialista del mondo sociale di mezzo avvenuta anche nel territorio senese in seguito alla guerra e alle tensioni del “biennio rosso”.
- Anche i salariati, braccianti, mezzadri, ovvero i ceti inferiori, rappresentarono una schiera cospicua (27,4%).
- Gli appartenenti ai ceti superiori (vi sono conteggiati anche professionisti e studenti universitari perché, nel contesto dei singoli comuni, appartenevano, a vari gradi, all’élite, e come tali venivano percepiti) raggiunsero il 23,8%, nel quale spicca il 12,2% di possidenti prevalentemente di famiglia nobile (secondo il censimento del 1921, i possidenti costituivano solo l’1,3% della popolazione attiva della provincia), di industriali e di impresari edili.

Se infine concentriamo lo sguardo sui 30 quadri di comando della legione senese (comandante in capo, console, seniori, decurioni, centurioni) risalta una presenza ampiamente maggioritaria di ceti superiori (20 persone) rispetto ai ceti medi (9) e inferiori (1). Si tratta di cifre, in particolare quelle relative ai ceti superiori, che sembrano non collimare con l’interpretazione defeliciana che ha presentato il movimento fascista lanciato alla conquista del potere come un tentativo di rivoluzione autonoma dei ceti medi. Almeno in provincia di Siena, il movimento fascista, pur tra contraddizioni e lotte interne che non mancarono, pare essere stato nelle mani, e dunque sotto l’egemonia, delle tradizionali classi dominanti fin dalla partecipazione all’evento fondativo del regime.
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Alessandro Orlandini,  insegnante e giornalista, è direttore dell'Istituto Storico della Resistenza Senese e dell'Età Contemporanea di Siena.
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