Attenti all’amore “bugiardo“. A tutto ciò che, sapendo (o forse no) di mentire a noi stessi, ci raccontiamo quando siamo innamorati. Ecco la sostanza dell’ultimo libro di Alain de Botton, “Il corso dell’amore”, dove il filosofo e scrittore narra la storia di una coppia, una comune storia di attrazione, innamoramento, matrimonio; poi, come da copione, la noia e la routine della quotidianità. «La narrativa sui sentimenti – dice de Botton – si muove tra due estremi: la meraviglia e il disastro», il principio e la fine, mentre lui ritiene che si debba «esplorare la via di mezzo tra le giornate di sole e il tutto-grigio». Ecco, dunque, le ragioni di questo romanzo le cui vicende sono puntualmente e scientificamente ricondotte a quei meccanismi psicologici e psicanalitici che legano gli amanti.
Nei primi tempi del loro matrimonio e anche per molti anni a seguire, a Rabih e a sua moglie viene posta sempre la stessa domanda: «come vi siete conosciuti?», di solito accompagnata da un’aria di trepidazione e da un giocoso entusiasmo di riflesso. Allora la coppia scambia uno sguardo (magari timido, se l’intera tavolata si è messa in ascolto) per stabilire a chi dei due tocchi raccontarlo. A seconda dell’uditorio, la butteranno sullo spiritoso o sul tenero. Riempiranno una sola riga o un capitolo intero.
L’inizio di un amore riceve un’attenzione così sproporzionata perché non è destinato a essere solo una fase tra le tante; per i romantici, è un concentrato di tutto ciò che c’è di significativo nell’amore in sé. Ecco perché il narratore delle storie d’amore, dopo che la coppia ha trionfato su una sfilza di difficoltà iniziali, è spesso costretto a consegnarla a un non meglio specificato futuro di felicità o a farla fuori. Quello che chiamiamo amore di solito non è che l’inizio dell’amore.
È curioso, osservano Rabih e sua moglie, che venga chiesto loro così di rado cosa sia successo dopo il primo incontro, come se la curiosità per la vera storia della loro relazione non fosse né lecita né utile. In pubblico non hanno mai affrontato la domanda che davvero li preoccupa: «com’è essere sposati da qualche tempo?»
Le storie di relazioni rimaste salde per decenni senza calamità e senza gioie eclatanti rimangono – cosa affascinante e preoccupante – eccezioni tra quelle che osiamo raccontarci sul corso dell’amore.
È stato così, questo inizio a cui si dedica troppa attenzione: Rabih ha trentun anni e vive in una città che conosce e capisce poco. Prima abitava a Londra, ma di recente si è trasferito a Edimburgo. Lo studio di architettura presso cui lavorava ha dimezzato il personale per la perdita inaspettata di una commessa, e lui è stato costretto a gettare le reti più lontano di quanto avrebbe voluto, finendo per accettare un posto in uno studio scozzese di urbanistica, specializzato in piazze e svincoli stradali.
Da qualche anno è single, dopo il naufragio di una relazione con una grafica. Si è iscritto a una palestra e a un sito di appuntamenti. È stato all’inaugurazione di una galleria che espone manufatti celtici. Ha partecipato a un fiume di eventi vagamente legati al suo lavoro. Tutto invano. Gli è capitato di provare una sintonia intellettuale con una donna, ma senza attrazione fisica e viceversa. O peggio ancora: una scintilla di speranza e poi l’accenno a un compagno, di solito poco lontano e con un’aria da carceriere. Eppure Rabih non si rassegna. È un romantico. E alla fine, dopo tante domeniche vuote, finalmente succede, quasi come gli è stato insegnato – soprattutto dall’arte – ad aspettarsi che accadesse. La rotonda è sulla A720, in direzione sud dal centro di Edimburgo, e collega la strada principale a una via chiusa di villette affacciate su un campo da golf e uno stagno. È un incarico che Rabih ha accettato non tanto perché gli interessi, quanto per gli obblighi imposti dalla sua posizione di nuovo arrivato. Dalla parte del cliente, in un primo tempo la supervisione era stata assegnata a un geometra dell’ufficio topografico municipale, che però, il giorno prima dell’inizio dei lavori, aveva subito un lutto ed era quindi stato sostituito da una collega più giovane. Si stringono la mano sul cantiere, una mattina nuvolosa all’inizio di giugno, poco dopo le undici. Kirsten McLelland indossa un giubbino catarifrangente, l’elmetto e un paio di scarponi pesanti. Rabih Khan non riesce a sentire molto di quello che gli sta dicendo, non solo per il sussulto ripetitivo di un compressore idraulico lì vicino, ma anche perché, come imparerà presto, Kirsten parla spesso a bassa voce, la voce della nativa Inverness che ha l’abitudine di scemare prima di aver completato una frase, come se chi parla avesse improvvisamente scoperto un’obiezione a quello che sta dicendo o fosse passato ad altre priorità. Nonostante l’abbigliamento (anzi, a dire il vero, in parte proprio per il suo abbigliamento), Rabih nota subito in Kirsten dei tratti fisici e psicologici a cui è sensibile. La osserva reagire, impassibile e divertita, all’atteggiamento di sufficienza dei dodici energumeni della squadra; osserva la diligenza con cui passa in rassegna i vari punti del programma, la sicurezza con cui trascura i dettami della moda e l’individualità suggerita dalla leggera irregolarità degli incisivi superiori.
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Nel mezzo di quella conversazione pratica, qua e là riesce comunque a cogliere qualche sprazzo del suo lato più personale. Quando le chiede dei suoi genitori, Kirsten risponde, con una nota di imbarazzo nella voce, che è cresciuta a Inverness solo con sua madre, perché suo padre aveva perso interesse per la vita famigliare. «Non è un punto di partenza ideale per imparare ad avere fiducia nelle persone» gli dice con un sorriso caustico (lui nota che è l’incisivo superiore sinistro a essere un po’ storto). «Forse è per questo che la prospettiva del ‘vissero felici e contenti’ non mi ha mai attirato.» Rabih non si lascia affatto scoraggiare da questa osservazione, anzi, ripensa al detto secondo cui i cinici sarebbero solo idealisti con standard insolitamente alti. Attraverso le ampie vetrate del Taj Mahal vede le nuvole che si muovono rapide e, in lontananza, un sole esitante che getta i suoi raggi sulle scure cupole vulcaniche delle Pentland Hills. Potrebbe limitarsi a pensare che Kirsten sia una persona simpatica con cui passare una mattina a risolvere esasperanti problemi di amministrazione municipale. Potrebbe astenersi dal giudicare le possibili profondità del suo carattere in base alle riflessioni che fa sulla vita di ufficio e la politica scozzese. Potrebbe accettare che sia improbabile riuscire a leggere la sua anima nel pallore della carnagione e nella curva del collo. Potrebbe accontentarsi di dire che sembra interessante e che gli serviranno altri venticinque anni per saperne di più. Invece Rabih ha la certezza di aver scoperto una persona dotata di una straordinaria combinazione di qualità interiori ed esteriori: intelligenza e gentilezza, umorismo e bellezza, sincerità e coraggio; una persona di cui sentirebbe la mancanza se adesso uscisse dalla porta, nonostante due ore prima fosse una perfetta sconosciuta; una persona a cui vorrebbe accarezzare e stringere le dita, al momento impegnate a tracciare vaghe linee sulla tovaglia con uno stuzzicadenti; una persona con cui vorrebbe avere dei figli e passare il resto della propria vita. Per il terrore di offenderla, incerto sui suoi gusti, consapevole del rischio di fraintendere i suoi segnali, le dimostra una sollecitudine eccessiva e un’attenzione meticolosa. «Scusami, preferisci tenere tu l’ombrello?» le chiede, mentre tornano al cantiere. «Figurati, non importa.» «Mi fa piacere tenerlo, ma se tu...» insiste lui. «Come preferisci, davvero.»
[da Il corso dell’amore di Alain de Botton, Guanda, 2016]
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