Aharon Appelfeld, "senza significato la vita è una disperazione"

Luigi Oliveto

11/01/2018

Ai primi di gennaio è scomparso lo scrittore israeliano Aharon Appelfeld. Ottantacinque anni e, alle spalle, una vita di sofferenze e di incredibili vicissitudini. Il nazismo gli aveva ucciso la madre e i nonni. Lui era sopravvissuto all’Olocausto riuscendo – bambino di nove anni – a fuggire da un campo di sterminio. Scappò nei boschi nutrendosi di ciò che trovava; vi incontrò dei criminali che, di fatto, lo adottarono ("La mia seconda scuola, in cui ho imparato la generosità, l'odio, la brutalità, tutti i sensi dell'essere umano"). Troverà poi rifugio in una casa di prostitute. Intorno ai quattordici anni fu profugo clandestino in Italia ("la mia prima terra promessa"), finché, nel 1946, riuscì a raggiungere la Palestina. In quegli anni non cessò mai di chiedersi dove potevano essere i suoi genitori, coloro che lo amavano così tanto da non poter averlo lasciato solo in quel modo. Negli scritti di Appelfeld ricorrono spesso fatti, dettagli, sentimenti, pensieri, sensazioni della sua drammatica giovinezza. Così è anche nel libro di prossima uscita in Italia, intitolato “Giorni luminosi” (Guanda) e del quale sono state anticipate alcune pagine. L’idea mai abbandonata dallo scrittore ebreo fu che "senza significato la vita è una disperazione". Raccontò la Shoah, sempre attento ad evitare un rischio: "chi ha vissuto l'Olocausto finisce per diventare cinico, egocentrico". E, secondo lui, nemmeno l’orrore e l’inspiegabile, dovevano condurre l’uomo nelle secche dell’egoismo.
 
Alla fine della guerra Theo decise in cuor suo che sarebbe tornato a casa da solo, in linea retta, senza deviazioni. Era un lungo cammino, qualche centinaio di chilometri, e tuttavia aveva l’impressione di vederlo ben delineato davanti a sé. Sapeva che questa decisione lo avrebbe allontanato dai suoi compagni e costretto a trascorrere molti giorni nei campi deserti e fra i monti muti, ma era determinato: solo, in linea retta, senza deviazioni. E così partì, senza salutare nessuno.
Aveva intenzione di procedere a passo regolare, badando bene a andare dritto, ma le gambe assetate di marcia non gli obbedivano. Dopo un’ora scarsa era già stanco e si sedette. Era un campo aperto, incolto, con alcuni automezzi carbonizzati e delle scatole di conserva vuote sparse qua e là. Quelle spoglie di guerra non lo colpirono. Aveva voglia di camminare, ma la debolezza e la stanchezza lo trattenevano. Non aveva altra scelta che sedersi e riposare. Le immagini degli ultimi tempi facevano capolino nei suoi occhi, ma lui con un gesto brusco le cacciò via e si alzò. Era un ampio pianoro che si estendeva sino all’orizzonte. In lontananza c’erano delle colline che parevano delle grosse macchie. Nessun segno di vita. Verso sera il paesaggio cambiò drasticamente: niente più pianoro a perdita d’occhio ma uno spazio ondulato, costellato di collinette. [...] Il cielo azzurro si andava scurendo sopra di lui. Si sedette e lo osservò, e più lo guardava più si sentiva pesante. Solo un attimo, si disse chiudendo gli occhi. Fece due conti e si accorse che aveva coperto una distanza di sette chilometri. Aveva un poco deviato dal percorso, ma non in modo irreparabile. D’ora in poi sarebbe stato attento, niente più errori. Questo pensiero passeggero lo calmò e riaprì gli occhi. Era un crepuscolo sereno, tranquillo. Dalle case lontane, sparse all’orizzonte, saliva un fumo rado. La scena gli fece venire voglia di una tazza di caffè, ma non si lasciò travolgere da quel miraggio. Invece si alzò, cercò un bastoncino di legno e lo piantò nella terra friabile: sarà un segno, non mi discosterò più dalla linea retta. Dentro di sé sapeva che era una stupidaggine, ma a Theo chissà perché sembrava che quel bastone in mezzo al nulla gli sarebbe servito come scettro e per misurare le distanze. Gli occhi non l’avrebbero più ingannato. Da quando aveva lasciato il campo si era comportato in un modo sorprendente: una parte di lui era rimasta al campo, mentre quella che se n’era andata non era più come prima. Non era arrabbiato né pentito. Aveva un solo desiderio: andare avanti, ma l’avanzata era lenta.
 
[da Giorni luminosi di Aharon Appelfeld, trad. di Elena Loewenthal, Guanda, 2017]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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