L’orizzonte cicaleggia sbandato tra l’esiguo fumo latteo delle Perseidi dove ogni tanto avviene un sospirato brillamento. C’è il calore di mezz’agosto che morde le caviglie nude e fiorisce ancora in piena notte dall’asfalto che l’ha accumulato per tutto il giorno come una batteria. Distinto si sente il frinire di una teoria di motorini sulla statale distante in linea d’aria sì e no un paio di chilometri, via lattea di api bottinatrici di pub e chioschi che finisce a vorticare operosa attorno alla sospirata discoteca sopra il mare lisciandone insistentemente le mura perimetrali quasi si trattasse dell’ape regina. A noi non rimane che sfiorare pigramente la superficie della luce e dei suoi meccanici riflessi che come un fungo d’afa nucleare emerge dal bosco con la sua onda d’urto che prima spegne il respiro e poi incolla i vestiti alla pelle. Difficile pensare che tutto questo carosello appiccicaticcio e un po’ bollito che ci gira intorno sia fatto solo per noi, che tra l’altro non ci siamo nemmeno volontariamente saliti sopra. Tra noi il silenzio è così caustico da intaccare l’anima, quasi crudo come il carpaccio troppo bollito dal limone che abbiamo mangiato distrattamente e la fettina di luna citrina è un sedimento opaco e maderizzato sul fondo dei nostri cocktail. Per tutta la sera non mi hai mai dato la mano. Quando sei arrabbiata procedi tenendo la borsa a tracolla dal lato in cui ti cammino a fianco. Sembri un soldato che marcia nell’alveo di un invisibile plotone. Invece quando ci fermiamo e ci mettiamo a sedere eviti di guardarmi fissando invece ostinatamente tutto ciò che è compreso entro l’acido perimetro delle tue braccia conserte. Io, povera butterfly sudata e con la pancia, gioco con gli ombrellini di carta facendomeli roteare sulla punta del naso.
Qualche ora fa almeno c’era chi ci serviva, una insegna, delle luci, qualche coppia e un gracidante tavolo di amici. Dei buoni drink, davvero, che per carità non stemperavano più di tanto i nostri nervi tesi, ma almeno li accarezzavano dal verso del pelo. Adesso niente, tutto è silenzioso. Si sono dimenticati di noi, dei loro grossi e poco maneggevoli bicchieri col bordo cosparso di granelli di zucchero di canna e perfino dei nostri soldi. Senza che ce ne accorgessimo nemmeno si sono spente le luci e quello scampolo di prato lungo la strada e in faccia al bosco dove si spegnevano le note dell’ultimo tormentone pseudo-spagnolo adesso sembra una grande e primitiva radura che ha inghiottito tutto, il locale e anche la strada come un gigantesco spaghetto. Tu hai perso i tuoi occhi nella stanchezza, io li ho diluiti nella notte, non facendo altro che fissare il niente incolore e di tanto in tanto gli occhi d’ambra di qualche gatto randagio. Fai per alzarti ma non ti alzi. Finalmente un movimento, comunque. È come osservare un terremoto su un vulcano in quiescenza. Si tratta di una specie di compressione muscolare. Semplicemente, circondi le ginocchia nude con le braccia, e ci schiacci la faccia sopra. Pare tu ti stia spremendo via le ultime energie arrotolandoti come un tubo di dentifricio da gettare. D’un tratto un fiotto di vento sgorga dal bosco e muove aria fredda sulle nostre facce ricordandoci che l’estate non sarà eterna.
Quando questi soffi d’aria fredda si infittiranno e picchieranno con insistenza sull’altopiano e sul paese come una mandria di animali selvatici in cerca d’acqua il cielo si ingrosserà come un seno materno e la terra biancheggiante e spaccata si farà bassa e scura. Il bosco tornerà serrato e impenetrabile come la tua bocca. E noi probabilmente non saremo nemmeno capaci non dico di contenere un’emozione in proprio, ma almeno tra di noi. Paranoico ed emozionalmente incontinente, direbbe, credo, il mio terapeuta. Afferro il bicchiere ma è il tuo braccio che vorrei stringere.
Sul tavolo i resti di patatine ed arachidi formano un involontario giardino Zen di snack spiaggiati e dissalati intorno al sasso su cui è abbarbicata una Tillandsia, l’orchidea senza radici che vive d’aria. Uno strano incrocio tra una medusa, un ragno con troppe zampe e una testa arruffata. Curiosa storia quella di una pianta che è indifferente alla terra su cui poggia. Una pianta senza radici è più o meno come un uomo che va in giro senza testa. Velocissima ti rannicchi ancora più stretta e poi ti dai una spinta facendo forza sul terreno. E nuoti. Nell’aria. Dapprima con qualche incertezza, poi più disinvolta. E veloce. Non certo quanto i gufi o i pipistrelli, ma comunque abbastanza da rendere difficile al mio sguardo seguirti nell’oscurità. Dio, come nuoti bene.
Vieni
In effetti è tanto che non nuotiamo insieme. Prima lo facevamo spesso, fino a che ci facevano male le braccia e verso l’alba le gambe si intorpidivano dal freddo. Quando voli troppo vicino al sorgere del sole l’umidità ti impregna e poi si ghiaccia come a volte accade alle ali degli aerei.
Non ne ho voglia.
In realtà non è nemmeno questo. Il motivo è ancora più radicale. È che non ne percepisco più il senso. La voglia è momentanea come la sete, viene e va, secondo il tempo e il desiderio. Ma per me bere non è più necessario, mi produco da me l’acqua che mi serve. Come la Tillandsia, sono radicalmente sradicato. E sì che ti ho insegnato io, una volta, a nuotare.
Era un giorno di confine tra una stagione e l’altra, la terra di nessuno dove su certi alberi si vedono ancora le foglie dell’estate ma il sole è così basso sulle case e sbiadito da sembrare un lecca lecca usato. Quel giorno eravamo a casa mia. Non ti ho spiegato niente, ti ho solo spinto dalla finestra. E tu non hai gridato. Del resto, il nuoto è un istinto naturale e non si spiega. A me mio padre per farmi imparare mi gettò in un crepaccio nonostante le proteste di mia madre. Il cuore se ne andava in giro per il corpo come Pac-Man a far fuori tutti gli altri organi, a cominciare dallo stomaco. Nel frattempo hai terminato il tuo volo e ti rimetti seduta con un sospiro di piacere. Finalmente mi guardi. Adesso è tardi anche per le Perseidi, che hanno smesso di appesantirsi di sguardi e desideri fino a scoppiettare in cielo come pop corn di dimensioni galattiche.
Ce ne andiamo?
Mi pare una buona idea.
Ci alziamo e ci avviamo a tentoni verso la macchina, la luce dei telefoni non chiarisce troppo bene la strada da prendere. Si rischia di cadere. Mi afferri il braccio quel tanto che basta da riscaldarmi un po'. E prima di salire in auto, forte di questo calore, prendo coraggio.
È finita? Domando a bruciapelo.
Rispondi di getto, quasi cantilenando, come se i tuoi pensieri fossero poesia e non costruitissima prosa.
Forse dovrebbe, ma non è ancora il momento.
Mi sorridi.
Ciò non toglie che sei stato cattivo. E insensibile.
Poi ti togli i tacchi e metti i piedi sul cruscotto, e lo sai che non lo sopporto. Sorridi.
Ti avvicini come un gatto e mi mordi un orecchio. La macchina continua a scendere verso la città, ne sento l’afa bagnaticcia e l’aria da fina che era trascolora sul giallo facendosi densa, vischiosa e maleodorante come un banco d’alghe sporche.
Non mi volto ma so che sto abbozzando un sorriso. Scopri ancora di più le gambe e ti tocchi le labbra. Nel frattempo siamo davanti casa tua. I quartieri periferici della città sono silenziosi e fumanti d’umidità come un vulcano spento. Esci dall’auto di scatto senza salutare e la notte ti assorbe. Faccio per rimettere in moto e mi fai trasalire sfiorandomi mimetica e imprevedibile come una falena. In piedi sulla strada accanto alla macchina infili le braccia nel finestrino; con le dita sottili, inizi a sbottonarmi la camicia come quando hai qualcosa in mente.
Domani mi insegni a camminare sull’acqua?
Avvio il motore e parto. Sai già la risposta e del resto ti sei allontanata salendo le scale di casa tua senza nemmeno attenderla. Me ne scendo lentamente verso l’imbuto della città vecchia e il vischioso struscio della litoranea sgranando un rosario di semafori accesi solo per me. Domani avrei un sacco di lavoro da sbrigare. Guardo il meteo sul telefonino. Calma di vento. Per tutta la mattina e il primo pomeriggio. Domani il mare sarà perfetto per camminarci sopra assieme.
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