Aggiustare l’universo – titolo dell’ultimo romanzo di Raffaella Romagnolo – è cosa impegnativa, ma qualcosa si può fare. Magari iniziando da Borgo di Dentro, una cittadina del Monferrato che, nell’ottobre 1945, a guerra terminata, prova a rinascere in mezzo a devastazioni e ritrovati profumi di libertà. Per la sua piccola parte, decide di impegnarsi nell’impresa anche una maestra ventiduenne dal singolare nome di Virgilia, ma che tutti chiamano più convenientemente Gilla. Da Genova, era sfollata a Borgo di Dentro insieme alla famiglia per sfuggire ai bombardamenti. Ora che il peggio è passato, i suoi sono rientrati nell’amata Genova. Per fortuna gli «stormi di quadrimotori Avro Lancaster carichi di gigantesche uova esplosive» avevano risparmiato la loro casa e il negozio di orologiaio del padre. Ma lei, nonostante i ripetuti inviti dei genitori (“Papà ha riaperto la ditta. Abbiamo fatto il bagno al mare. Ti aspettiamo. La guerra è finita, che aspetti a tornare?”) temporeggia in un contrastante sentimento di rifiuto e di legame con quel luogo. Poi il direttore della scuola elementare (che è anche prete) esercitando una nemmeno troppo velata moral suasion (questo posto ti ha accolta, ora è il momento che gli dimostri riconoscenza) le ha chiesto di assumere l’incarico di insegnante per l’anno scolastico 1945-46, e lei ha accettato. Così Gilla è rimasta a Borgo di Dentro. Continua ad abitare nella soffitta al civico 13 di vico Luna, dove, terminate le ore di scuola, si rifugia «scampando agli agguati sanguinosi della memoria»; tra i più dolorosi, c’è il ricordo di Michele, con il quale aveva condiviso amore e impegno nella lotta partigiana.
L’edificio della scuola, per diciotto mesi, era stato sede del comando tedesco e lasciato in condizioni disastrose. Nella palestra avevano interrogato sotto tortura i partigiani fatti prigionieri, sulle pareti si vedono ancora le macchie del sangue di chi vi era stato giustiziato. Tra le suppellettili accatastate, rotte, danneggiate, Gilla ha recuperato “un planetario meccanico, un ingegnoso prototipo del sistema solare di metallo e cartapesta, la manovella per il moto di rivoluzione, i pianeti dipinti a tempera, la base con i segni zodiacali disegnati a filo d’oro”. Lo ha portato a casa e con molta pazienza cerca di ripristinarlo. Insomma, aggiusta l’universo. Mentre la mattina, nel piccolo universo della sua classe V, sezione D, ben altre aggiustature deve fare nelle testoline delle 23 bambine che le sono state affidate. Tra costoro siede al primo banco Francesca Pellegrini, ma il suo vero nome sarebbe Ester. E’ la figlia del professor Abram Sacerdoti di Casale Monferrato, deportato ad Auschwitz in quanto ebreo. La mamma, per salvare la bimba, l’aveva affidata alle suore ed ora è nell’orfanotrofio gestito dalle stesse religiose. A seguito del trauma, Ester/Francesca non parla. A scuola è bravissima e la maestra Gilla rivolge a lei una dedizione speciale: per ciò che ha dovuto subire, per la storia che si porta dentro, per la sintonia che prova verso quell’esserino, emblema di una tragedia inimmaginabile se non fosse veramente accaduta. La bambina che non parla è fin troppo eloquente nel testimoniare il dramma che ha travolto il mondo. Gilla lo rivede ogni mattina nei suoi occhi, nel suo ostinato mutismo. Oltre al planetario che raffigura il cielo, c’è dunque da aggiustare quanto si è molto rotto più in basso. Con prosa misurata ma intensa, lo racconta bene Raffaella Romagnolo riproponendo uno spaccato di storia che pessimi maestri vorrebbero fosse dimenticato.
***
La maestra ha ventidue anni e si chiama come una zia defunta, Virgilia, donna di angelica bontà e bruttezza leggendaria. Nome scelto perché la neonata impari già al fonte battesimale che non tutto si può avere dalla vita.
Virgilia, dunque. Anche se neppure la madre e il padre la chiamano così. Né Michele (a Michele non vuole pensare). E neanche il direttore della scuola elementare di Borgo di Dentro, che pure conosce il suo vero nome. Come tutti, anche lui la chiama Gilla. Signorina Gilla.
«Sono lieto che abbia accettato il mio invito» dice facendola accomodare.
Gilla fa un cenno col capo, e tace. Tocca a lui parlare, è lui che l’ha convocata.
«Vengo subito al punto» prosegue l’uomo. Ha il naso a becco, la tonaca stretta addosso come lucide piume d’uccello.
Lei, una parte di lei, oggi, 23 luglio 1945, non ne può più di Borgo di Dentro, della soffitta in cui abita al civico 13 di vico Luna, della città vecchia arroventata dal caldo estivo, dei palazzacci alti e decrepiti, delle stradine umide e buie, del medioevo di filatrici, chiromanti, operai, lavandaie, maniscalchi, puttane, tagliaborse e rubagalline. Vicoli dove la ragazza si muove con cautela, a occhi bassi, evitando luoghi dolorosi come stazioni della via crucis. Il “palazzo reale”. La calzoleria di piazza Fontana. Riducendo le uscite allo stretto indispensabile. Scampando agli agguati sanguinosi della memoria.
E non sopporta più neanche la parte nuova della città, i palazzotti aristocratici coi tetti di ardesia e i balconcini di ferro battuto, la farmacia sguarnita, la pasticceria malinconica, l’atelier della modista che ha riaperto da poco, la merceria polverosa. Detesta le vetrine vuote, o con quattro carabattole. Il fornaio che ha solo pagnotte di pane scuro, e poche. La fila per il ritiro delle tessere all’ufficio annonario.
«Ho avuto informazioni molto lusinghiere sul suo conto. Il suo spirito di sacrificio…»
L’ufficio del prete-direttore è uno stanzino triste. Sul muro spoglio alle spalle dell’uomo, il crocifisso e un calendario fermo al mese di aprile 1942, “anno XX dell’era fascista”. In un angolo, un ammasso di mobilia inservibile.
«So che si è distinta…»
Lei fatica a seguire il filo. Vorrebbe strappare dal chiodo il vecchio calendario e ridurlo a brandelli. Il passato è passato! Ma non è solo il calendario, è il posto che la mette a disagio. Non l’ufficio: il fabbricato intero. Come stare dentro una casa infestata. Per questo non è tranquilla. Sotto le suole avverte qualche filo di paglia, frustuli di segatura. Giacigli? Animali? Umani?
«Le prove che ha superato…» prosegue lui.
Perché ha accettato di incontrare quest’uomo se una parte di lei ha già le valigie pronte? Gilla non appartiene a Borgo di Dentro: appartiene a Genova, è nata a un passo da piazza Colombo, è cresciuta tra via Galata e via San Vincenzo, lì ha studiato, lì ha preso il diploma da maestra, lì è sopravvissuta a stormi di quadrimotori Avro Lancaster carichi di gigantesche uova esplosive. «Ha mai visto il cratere di una bomba da due tonnellate?» dice.
Il direttore la osserva in silenzio. Se è stupito dall’interruzione non lo dà a vedere. Porta le mani giunte al volto. Le dita-artigli picchiettano producendo un ticchettio ovattato. «La nostra piccola comunità ha accolto volentieri molti suoi concittadini in fuga» dice poi.
Un punto per lui, pensa Gilla. Attenta direbbe Michele. I preti ti fanno sentire in debito, ti addossano colpe che non hai, ti manipolano, ti tirano dalla loro parte. (A Michele non vuole pensare. Troppa nostalgia, troppo dolore.)
Resta il fatto che lei non appartiene a questo posto. E allora non è arrivato il momento di riprendere la via di casa come hanno fatto tutti gli altri sfollati? Che cosa la tiene incatenata qui? I genitori di Gilla hanno lasciato Borgo di Dentro e la soffitta al civico 13 di vico Luna da mesi. Il loro appartamento a Genova è ancora in piedi, la bottega da orologiaio del padre anche. Le scrivono cartoline dal mondo di prima. Il porto, il lungomare di Sestri.
Papà ha riaperto la ditta. Abbiamo fatto il bagno al mare. Ti aspettiamo.
Qualche volta più dirette.
La guerra è finita, che aspetti a tornare?
«E d’altronde le tribolazioni toccate ai cittadini genovesi sono paragonabili, per certi versi, a quelle toccate alla nostra piccola comunità» riprende il direttore. «Ma lei questo già lo sa. Ed è proprio il legame che ha saputo costruire…»
Lo stanzino è umido, Gilla stringe le braccia al corpo, ha quasi freddo.
«… in fondo si tratta solo di portare a termine il compito, signorina Gilla. Anche i bambini di Borgo di Dentro…»
«Meritano?» risponde lei, di botto. La parola è un proiettile che non è stata capace di trattenere.
L’uomo estrae un foglio dal sottomano di pelle nera come il tavolo, il crocifisso e la tonaca, lo appoggia sul ripiano, con due dita lo spinge avanti. C’è scritto:
BORGO DI DENTRO
SCUOLA ELEMENTARE
ANNO SCOLASTICO 1945-1946
DOMANDA DI ASSUNZIONE IN SERVIZIO
A lei sembra di avvertire il rumore di una trappola che scatta. Vorrebbe alzarsi e urlargli in faccia, a lui, a tutti: “La guerra è finita!”. Invece resta seduta e zitta. Lascia correre lo sguardo intorno. La devastazione. La devastazione e tutto il lavoro che resta da fare. Allora afferra il foglio con malagrazia, lo compila e lo firma. Sola, a labbra strette torna poi ad affrontare l’estate infuocata. Gilla, Gilla, i preti è il loro mestiere dice intanto Michele nella sua testa, e ha gli occhi che ridono.
[da Aggiustare l’universo di Raffaella Romagnolo, Mondadori, 2023]
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