New York ha avuto – continua ad avere – in letteratura molti cantori. Tra questi, a pieno titolo, Adam Gopnik, che già con “Una casa a New York” aveva composto un efficace racconto della Grande Mela al debutto del nuovo millennio; allorché, dopo il drammatico 11 settembre 2001, la metropoli americana diventa un “inno alla speranza” in cui “le ombre sono tutto quello che abbiamo per mostrare a noi stessi le innumerevoli forme che la luce può creare”. Con “Io, lei, Manhattan”, ora pubblicato in Italia da Guanda, Gopnik, sempre seguendo il filo autobiografico, ripropone un coinvolgente spaccato della New York di inizio anni Ottanta. Quando due giovani (lo stesso autore e Martha, la ragazza che diverrà sua moglie) appena sbarcati dal Canada vanno ad abitare in un monolocale di Manhattan, “una stanza di nove metri quadri scarsi, un luogo che avevamo soprannominato ‘Blue Room’ in onore di una vecchia canzone di Rodgers & Hart che io ero abbastanza pazzo da ricordare, e Martha abbastanza pazza da accettare come guida di vita”. Comincia così la storia “in cui due innamorati provenienti dal Canada divengono una coppia newyorkese…”, in quella città e in quegli anni in cui talento e ambizioni potevano trovare felice esito. Lui, infatti, che era bravo a mettere in fila le parole e di spaziare dalla cultura alta a quella bassa, riesce a passare da un impiego alla Frick Library a un altro al MoMA, fino ad approdare alla rivista GQ grazie al fatto che la totale mancanza di requisiti lo rende il candidato ideale. E in questa escalation, dal monolocale di Manhattan si passa a un loft di centoquaranta metri quadri a SoHo, “un mondo reale e spazioso e con finestre enormi”. Dunque, storia di una coppia che realizza il proprio sogno newyorkese, ma, non di meno, vivido racconto sociale e antropologico di una città; rievocazione di un clima culturale, di certi tic modaioli, aspirazioni, status symbol, oggetti iconici come il walkman e le scarpe Nike. Attraversano le pagine di Gopnik celebri personaggi quali Richard Avedon, Robert Hughes, Jeff Koons, insieme a bizzarre figure come un derattizzatore filosofo o un artista di strada che rifà i quadri di Van Gogh ‘migliorandoli’.
E’ la New York degli anni Ottanta, quella che molti di noi hanno conosciuto subendone il fascino, intuendone alcune cose che Adam Gopnik descrive – verrebbe da dire, celebra – con esattezza, sentimento, ironia. Perché lui sa mettere in fila le parole. Su questa capacità ha imperniato il suo successo e raggiunto la più grande soddisfazione: “vedere le parole far centro”, appunto.
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La mattina in cui dovevo sposarmi, a New York, entrai in una libreria: lo facevo sempre nei momenti di crisi o di estasi, finché non le hanno chiuse tutte – e allora, come un monaco, mi è toccato cercare un po’ di conforto o di ispirazione da qualche parte nell’etere. Ci trovai qualcosa che speravo avrebbe fatto da epigrafe al nostro imminente matrimonio: era di Issa – poeta giapponese del Settecento, il più sensibile e spiritoso degli autori di haiku – e diceva semplicemente:
Il mondo di rugiada è
un mondo di rugiada;
eppure...
Lo colsi immediatamente – o pensai d’averlo colto – in tutta la sua pregnante semplicità, nella sua essenziale accettazione e implicita immensità. La vita scorre, ed è difficile, tuttavia vi affiorano piaceri ed epifanie – per esempio ti capita di sposare la ragazza più carina che tu abbia mai incontrato nella città più fantastica del mondo. Non devi prenderti in giro – ma forse un po’ puoi. (Anni dopo, quando tenevo la rubrica «Talk of the Town» sul New Yorker, avrei intervistato una delle Andrews Sisters che, a proposito di Bing Crosby, mi confidò con discrezione: «Non potevi prenderlo troppo in giro: però un po’ sì». Dipendeva da com’era inclinato il suo cappello. La vita, pensai, con i suoi stati d’animo svelati dalle pressioni del tempo, è come Bing Crosby con il suo cappello. E quella mattina il cappello aveva proprio l’inclinazione giusta.)
Anni dopo ancora, Martha – la ragazza che sposai quel giorno e che adesso era incinta – mi fece promettere di non rifugiarmi in libreria quando sarebbe entrata in travaglio. Quando arrivò il momento, le cose andarono per le lunghe; così, alla sesta ora, volendo evitare una litigata con l’insopportabile ostetrico, mi presi una pausa e in effetti finii proprio in una libreria appena dietro l’angolo. Fu una buona mossa. La mia assenza fece andare Martha nel panico – con il rumore ininterrotto delle ambulanze che arrivavano all’ingresso del pronto soccorso lì vicino, non le ci volle molto per immaginare un qualche tragico incidente karmico – al punto che si dilatò. Arrivai appena in tempo per la nascita di nostro figlio, portando con me una splendida copia del Senso della bellezza di Santayana che, giuro, avevo davvero intenzione di leggerle ad alta voce, se le cose si fossero protratte ulteriormente.
Come ho detto, però, tutto questo accadde anni dopo – solo qualcuno in verità, se ci atteniamo al modo in cui la gente più anziana ricorda queste cose; ma all’epoca un decennio pareva una vita. Era una vita.
Quando dico «sposarmi a New York» so che potrebbe suonare una cosa da cappelli a cilindro, giacche a coda di rondine e funzione alla St. Thomas Episcopal. In realtà, in una gelida giornata dicembrina, prendemmo il treno numero 5 per il municipio stringendo in mano una licenza matrimoniale e gli esami del sangue, e ci sottoponemmo a una cerimonia di un minuto e mezzo celebrata da un funzionario che somigliava un po’ al Don Ameche di quand’ero bambino, quando presentava in tv International Circus. E così, dopo altri quarantacinque secondi circa di voti e promesse, salimmo sulla metropolitana che ci avrebbe riportati al seminterrato dove stavamo cominciando la nostra vita, una stanza di nove metri quadri scarsi, un luogo che avevamo soprannominato «Blue Room» in onore di una vecchia canzone di Rodgers & Hart che io ero abbastanza pazzo da ricordare, e Martha abbastanza pazza da accettare come guida di vita. Parlava di una coppia che sceglieva una «Blue Room», un monolocale dove poter cominciare la propria vita: Not like a ballroom, / A small room, /A hall room... Lontano da tutti, nel più piccolo monolocale di tutta Manhattan, quei due erano felici.
In un certo senso, il viaggio in metropolitana a downtown non era che il prolungamento di un viaggio verso sud che avevamo cominciato qualche mese prima in Canada salendo su un autobus diretto a NEW YORK CITY, una scena che pareva uscita da un musical degli anni Quaranta. Mio padre ci accompagnò all’autobus. Quando i giovani figli, maschi o femmine che siano, lasciano la provincia alla volta della metropoli, ci si aspetta che i padri diano loro dei consigli. Nei Tre moschettieri, il padre di D’Artagnan dice al figlio di battersi a duello con chiunque, una volta giunto a Parigi: un consiglio sensato da dare a chi possiede una spada e sa usarla. Quando Sky Masterson – avete presente? l’eroe di Bulli e pupe – lascia il Colorado per andare a New York, suo padre gli dice che se nella grande città qualcuno ti mostra un mazzo di carte nuovo di zecca con il sigillo intatto, e vuole scommettere che, come dice il vecchio, quando lo apre salterà fuori il fante di picche per levarti una pulce dall’orecchio, tu non devi starci: il fante salterà fuori sul serio, la pulce resterà nell’orecchio e per di più ti ritroverai senza calzoni. Questo per dire che nella grande città, se il mazzo non è truccato, nessuno s’imbarca in una scommessa evidentemente folle (questo, naturalmente, è il corollario di un famoso avvertimento: se sei seduto a un tavolo da gioco e non riesci a capire chi sia il pollo, il pollo sei tu).
Il consiglio di mio padre, quando lasciai il Canada per andare a New York, fu semplice: «Non sottovalutare mai l’insicurezza altrui». Era un consiglio eccellente, e tutti i guai in cui mi sarei cacciato in seguito derivarono perlopiù dal fatto di essermelo dimenticato. Chiunque, anche chi apparentemente è forte, lotta dentro di sé con una paura indiavolata di non essere amato o quanto meno apprezzato, emozione che la città, enorme com’è, non può che amplificare. Ripensandoci a distanza di decenni, credo che il mio vecchio avesse colto in pieno il consiglio del padre di Sky Masterson di non scommettere sui fanti che saltano fuori dal mazzo, o almeno il suo corollario, e cioè che chiunque, al tavolo da gioco, può essere il pollo. Il tizio con il mazzo truccato sta giocando con un mazzo truccato perché non crede di poter vincere senza. Molto spesso, nel profondo, anche i tipi che la sanno lunga sono dei polli – o si sentono tali. È questo a renderli insicuri. Il baro azzimato e impassibile: è lui l’illusione del tavolo da gioco – e della città.
Mio padre parlava nell’estate del 1980: io arrivai a New York in agosto, e i dieci anni successivi della mia vita furono fantastici. D’altra parte, quando arrivai avevo vent’anni, perciò sarebbero stati fantastici anche se li avessi passati in una stazione di rilevamento dati al Circolo polare artico. Con quella particolare energia che abbiamo quando arriviamo in un posto nuovo, Martha e io esplorammo diligentemente tutti i luoghi curiosi della città. Ispezionammo ogni centimetro calpestabile di Central Park, entrando e uscendo da tutti i cancelli che Olmstead e Vaux avevano poeticamente nominato nel loro progetto, e lo Stranger’s Gate, il cancello degli stranieri, su Central Park West all’altezza della Centoseiesima, aveva per noi un significato speciale. Noi eravamo stranieri: eravamo arrivati, e sognavamo la cittadinanza.
[…]
E così arrivammo a New York; provvisoriamente insediati in un hotel economico di midtown, centellinando il denaro della borsa di studio, ci rivolgemmo a un agente immobiliare sull’Ottantaseiesima Est, e per una settimana andammo a vedere microscopici appartamenti a Yorkville (io frequentavo la scuola tra la Quinta e la Settantottesima, mentre Martha stava iniziando alla Columbia). A Martha non ne piacque nessuno, e alla fine l’agente esasperato ci spedì a guardare un monolocale sull’Ottantasettesima, vicino alla Prima Avenue. Forse sperava che – vedendo una cosa del genere – avremmo cominciato a ragionare, smettendo di farci troppe illusioni e decidendoci per uno dei posti già visitati. Ci trovammo davanti una stanza di nemmeno nove metri quadri in un seminterrato. La definizione dell’impossibile. L’agente, però, non poteva sapere quanto fossimo pazzi. O quanto fossimo intrappolati nella nostra specifica folie à deux, in cui l’impossibile diventava una forma di ideale. Quel minuscolo monolocale dava sul retro di una chiesa con una vetrata policroma legata a piombo. Da lì, potevamo andare a piedi al Metropolitan Museum. Non era che una scatola da scarpe, ma a noi sembrò una scatola romantica. (L’affitto era all’incirca lo stesso chiesto per tutti i piccoli appartamenti che avevamo visitato. Trecentosettantanove dollari al mese. Il massimo che potevamo permetterci era quattrocento.) Eravamo talmente rapiti dall’idea della nostra fuga e del nostro legame, che trasponemmo tutti gli aspetti sgradevoli di quel posto nella chiave dell’irresistibile. We’ll have a blue room,/A new room,/For two room,/Where ev’ry day’s a holiday/Because you’re married to me...
[da Io, lei, Manhattan di Adam Gopnik, trad. Isabella C. Blum, Guanda, 2019]
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