Quella che racconta Abi Daré nel suo romanzo “La ladra di parole” (EditriceNord, traduzione di Elisa Banfi) è la storia di un sofferto riscatto imperniato sulla conquista dell’istruzione, della parola che emancipa, libera, salva. La protagonista del libro è la quattordicenne Adunni, determinata a raggiungere un obbiettivo: “Mia mamma mi ha detto che l’istruzione mi dava una voce. Ma io non voglio una voce come le altre. Io voglio una voce forte, una voce che la sentono tutti. Voglio che entro in un posto e le persone mi sentono, anche prima che ho aperto bocca. Nella vita voglio aiutare tante persone, così, quando divento vecchia e muoio, vivo ancora nelle persone che ho aiutato”. Impresa non facile per una ragazzina che vive a Ikati, un villaggio della Nigeria, dove le donne a mala pena imparano a leggere e scrivere e subito vengono date in moglie a chi offre di più. Ma Adunni aspira a un futuro diverso. Ama studiare, intuisce che possedere conoscenze, apprendere parole, consente di capire il mondo, esprimere pensieri, sentimenti. E sogna di diventare maestra, per far sì che altre bambine possano, come lei, affrancarsi dalla schiavitù. Il sogno di Adunni sembra però svanire il giorno che suo padre le dice che dovrà andare in moglie a Morufu, più vecchio di lei e già con due mogli. È l’unico modo per sopperire alla mancanza di soldi che, dopo la morte della mamma, si è fatta insostenibile, tanto da non riuscire a pagare l’affitto della casa. Adunni deve cedere alla volontà paterna, ma non si arrende, non rinuncia al suo sogno. Nemmeno quando sarà costretta a fuggire a Lagos, diventare serva, subire vessazioni e crudeltà. Troverà comunque la forza per salvare le proprie aspirazioni, darli compimento. Grazie alle parole (prima sgrammaticate, poi sempre più esatte e consapevoli) con cui saprà chiamare (capire) le cose, resistere, alimentare la speranza.
***
Quella mattina lì il papà mi chiama, che mi vuole dentro al parlour.
Sta seduto nel divano senza cuscino e mi guarda. Il papà c’ha un modo strano di guardarmi. Sembra che me le vuole dare senza nessun motivo, o che ho le guance piene di merda e, se apro la bocca per parlare, dopo puzza tutto.
«Sah?» gli dico, e vado giù in ginocchio con le mani nella schiena. «Mi chiamavi?»
«Vieni qua.»
Lo so che mi deve dire qualcosa di brutto. Lo vedo dentro ai suoi occhi: sono opachi come un sasso marrone restato al sole caldo troppo tempo. Ce li ha uguali a tre anni fa, quando ha detto che dovevo smettere di andare a scuola. Ero già la più grande di tutta la classe e gli altri bambini mi chiamavano «Aunty». Lo dico per davvero: il giorno che ho smesso la scuola e il giorno che è morta la mia mamma sono i più brutti della mia vita.
Quando il papà mi chiede di andare più vicino non rispondo, perché il nostro parlour è piccolo come una Mazda. Cosa vuole che faccio, che gli entro in bocca? Rimango in ginocchio lì dove sono e aspetto che mi dice cosa c’è.
Il papà fa un rumore con la gola e si appoggia la schiena al legno del divano senza cuscino. Il cuscino era rovinato perché il nostro ultimo nato, Kayus, l’ha pisciato troppo. Da quando era piccolo, piscia come se gli hanno fatto una maledizione. Alla fine ha rovinato il cuscino, e allora la mamma l’ha usato per farcelo dormire sopra, come un letto.
Nel nostro parlour abbiamo anche la tivvù, tranne che non funziona. Born-boy, il nostro primo nato, che lo chiamiamo così perché vuol dire «nato maschio», l’aveva trovata dentro un bidone dell’immondizia due anni fa, quando aveva fatto lo spazzino nel villaggio attaccato al nostro. La lasciamo lì solo per bellezza. Sta bene, come un principe nel nostro parlour, nell’angolo della porta. Sopra c’è un vasetto, come la corona sopra la testa del principe. Quando viene qualcuno, il papà fa finta che funziona e mi dice: «Adunni, metti su le notizie per Mr Bada». E io gli devo rispondere: «Papà, non trovo il tele comando». Allora il papà scuote la testa e a Mr Bada gli dice: «Figli disgraziati, hanno perso il tele comando un’altra volta. Vieni, sediamoci fuori, e beviamo per dimenticare i mali del nostro Paese, la Nigeria».
Mr Bada dev’essere scemo proprio, se non ha capito che è una bugia.
C’abbiamo anche un ventilatore che due delle pale si sono staccate. Fa aria lo stesso, ma fa diventare il parlour caldo come un forno. Al papà gli piace sedersi davanti al ventilatore alla sera, con le caviglie a croce una sopra all’altra, a bere dalla bottiglia che ha preso per moglie da quando la mamma ci è morta.
«Adunni, tua mamma è morta», mi fa dopo un po’. Quando parla sa di alcol, è un odore che c’ha addosso anche se non beve. La pelle e il sudore gli puzzano sempre.
«Sì, papà. Lo so.» Perché mi dice una cosa che la so già? È una cosa che mi ha fatto un buco nel cuore e mi ha messo dentro un blocco di dolore che mi porto in giro da tutte le parti. Mica mi posso dimenticare che la mia mamma mi tossiva il sangue nella mano, sangue rosso e denso, con le bolle di saliva, nella mia mano, per tre mesi. Appena che chiudo gli occhi per dormire, lo vedo, il sangue, e tante volte sento in bocca quel sapore salato.
Al papà gli ridico che lo so già e dopo: «È successa un’altra cosa brutta?»
Il papà fa un sospiro. «Ci hanno detto di andare via.»
«Dove?» Certe volte il papà mi fa diventare preoccupata. Dopo che la mamma ci è morta, dice cose senza senso, ma tante. Parla da solo e piange anche, da solo, se pensa che nessuno ci sente. «Vuoi che ti vado a prendere l’acqua per lavarti? C’è anche da mangiare, pane fresco e arachidi caramellizzate.»
«L’affitto sono trentamila naira», dice il papà. «Se non li paghiamo, dobbiamo andare via.»
Trentamila non sono mica pochi soldi. Lo so che il papà non li trova nenanche se li cerca in tutta la Nigeria, perché già le settemila della retta della mia scuola non ce li aveva. Era la mamma che pagava la scuola e l’affitto e il mangiare e il tutto, quando non era morta.
«E dove li prendiamo, così tanti soldi?» gli chiedo.
«Morufu. Lo sai chi è? È venuto qui ieri.»
«Morufu? Quello che guida il taxi?» È un vecchio del nostro villaggio che guida il taxi e c’ha la faccia da caprone. A parte le sue due mogli, ha quattro figlie che nessuna va a scuola. Corrono vicino al torrente tutte sporche e si divertono a tirare i cartoni dello zucchero con lo spago, o giocano a suwe e a battersi le mani finché gli viene via la pelle. Perché è venuto a casa nostra, Morufu? Cosa voleva?
«Sì», dice il papà con le labbra tirate. «È un brav’uomo, Morufu. Ieri è arrivato con una sorpresa, mi diceva che ci paga lui il nostro affitto. Tutte le trentamila.»
«E ci sta bene?» Gliela faccio, la domanda, perché non ha senso: lo so che nessuno paga per un altro, a meno che vuole qualcosa. Perché Morufu ci paga l’affitto a noi? Cosa vuole? O forse aveva un debito di soldi col papà? Guardo il mio papà, spero tanto che non è quello che penso io. «Papà?»
Il papà aspetta, manda giù la saliva e si asciuga il sudore dalla fronte. «Sì. I soldi dell’affitto è... una parte del tuo owo-ori.»
«Il mio owo-ori? Il prezzo da sposarmi?» Nel mio cuore mi viene una crepa, e va avanti a spezzarsi perché non ho nenanche quindici anni e non mi sposo un vecchio scemo, perché voglio tornare a scuola e imparare il lavoro di maestra e diventare grande e adulta e guadagnare i soldi per una macchina e una bella casa col divano coi cuscini belli e aiutare a mio papà e ai miei due fratelli. Non mi voglio sposare nessun uomo o un ragazzo, nessuno-nessuno. Per questo glielo chiedo un’altra volta, al mio papà, e parlo piano-piano, così lui capisce bene quello che gli dico e non si confonde a darmi la risposta: «Papà, questo prezzo è per sposarmi io o perché si deve sposare un’altra persona?»
E il mio papà fa di sì molto piano, e a me mi vengono le lacrime negli occhi e la bocca spalancata grande, quando mi dice: «Per sposarti tu, Adunni. Ti sposi con Morufu settimana prossima».
[da La ladra di parole di Abi Daré, trad. di Elisa Banfi, EditriceNord, 2021]
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