A casa. Per cambiare vita non occorre fuggire, basta andarsene

Luigi Oliveto

15/02/2024

Cambio casa, cambio vita. Di questo tratta il romanzo “A casa” della scrittrice tedesca Judith Hermann, ottimamente tradotto da Teresa Ciuffoletti per l’editore Fazi. Confidenziale lezione di come per dare una svolta alla propria esistenza non occorra fuggire, basta andarsene. Scivolare da una vita a un’altra senza troppi patemi e commedie. Soggetto narrante è una donna quasi cinquantenne, di cui non sapremo mai il nome, che a un certo punto della sua vita decide di voltare pagina. Ha vissuto fino allora con un marito accumulatore seriale che in previsione della imminente apocalisse conserva e porta a casa di tutto, perché lui, mica fesso, non intende farsi trovare impreparato quando la mancanza di ciò che oggi appare inutile sarà indispensabile. La figlia, andata via da casa, è in giro per il mondo. Lei – la protagonista – ha lavorato in una fabbrica di sigarette ed è stata pure assistente di un mago, un tipo di buone maniere, ben vestito, con le scarpe a punta in pelle di coccodrillo. Era stata scritturata dal bizzarro personaggio per fare il numero della donna tagliata a metà e aveva rischiato di finire tale una volta che quel giochino a cui nessuno credeva sembrò davvero finire male. Insomma, dopo anni di vita alquanto insulsi, avverte il bisogno non tanto di fare chissà che, ma di essere qualcosa di diverso. Sola con sé stessa, con i propri pensieri e inquietudini. Lascia dunque casa e marito per trasferirsi a molti chilometri di distanza, sul mare, in una dimora assai spartana dove, oltre al vento, entra la fauna più varia e le turbolenze dei ricordi. In un paesino non troppo distante, suo fratello, uno scapolo sbruffone e inconcludente, gestisce un pub dove lei va a lavorare. Conosce la coetanea Mimì, donna esuberante e dal temperamento artistico, di cui diviene grande amica. Mantiene, comunque, rapporti epistolari con il marito e con la figlia. Succede ben poco, si dirà. Ma per la protagonista – giunta com’è all’età di mezzo – accade la cosa più illuminante: la consapevolezza di sé stessa, la libertà di scegliere. Da qui la lucidità per comprendere quanto della propria vita è già stato, e quanto, soprattutto come, abbia ancora da essere. Notevole è la perizia di scrittura di Judith Hermann, che con parsimonia di parole, restituisce intensità di cose, pensieri, lampi d’anima.
 
***
 
Al tempo, in quell’estate di quasi trent’anni fa, vivevo all’Ovest e molto lontano dall’acqua. Avevo un monolocale in una città di medie dimensioni, in una zona nuova, e un lavoro alla fabbrica di sigarette. Il lavoro era semplice, dovevo solo assicurarmi che il cilindro di tabacco filasse dritto nella taglierina; in realtà la macchina lo faceva da sé, era dotata di un sensore davanti al quale il cilindro scorreva ronzando e se non era dritto si bloccava. (Si bloccava come se andasse a sbattere contro un muro, arrestandosi con uno scossone tremendo). Capitava che questo sensore non funzionasse, perciò io stavo in piedi accanto alla macchina a controllare il cilindro, raddrizzandolo all’occorrenza. Dalle sette alle dodici, mezz’ora di pausa pranzo e poi altre tre ore. Spesso guardavo altrove. Guardavo la taglierina che sezionava il cilindro in singole sigarette, ne cadevano giù a migliaia, tutte quelle sigarette che poi la gente in città avrebbe fumato. Prima di entrare al lavoro. In pausa pranzo. Dopo mangiato. Durante un litigio. Durante l’amore e dopo l’amore.
Fumo.
Il lavoro alla fabbrica di sigarette era passabile. Io mi facevo gli affari miei, o meglio, non mi lasciavo coinvolgere negli affari altrui. Mi mettevo i tappi, le altre operaie invece no, pretendevano di chiacchierare in mezzo a quella bolgia infernale, io con i tappi non riuscivo a sentirle, ma le vedevo che si urlavano contro. Avevano volti arrossati e lucidi, i tendini del collo che sporgevano forti e belli. Gesticolavano, usavano gesti precisi e stringati per una scopata o un fallimento, la rabbia, la fine di qualcosa, il trionfo. Ridevano parecchio e si indicavano a vicenda, dandosi pacche sulle cosce per quanto ridevano e asciugandosi le lacrime con il dorso delle mani. La maggior parte di loro era abbastanza carina, nonostante i grembiuli informi, le cuffiette di garza piene di pelucchi e il gran caldo all’interno del padiglione, che ci trasformava in tante creature sfinite.
All’ora di pranzo si doveva dire buon appetito. Buon appetito nell’ascensore, in corridoio, a mensa, in fila per la distribuzione dei pasti. Io non avevo voglia di dire buon appetito, a un certo punto la cosa cominciò a dare nell’occhio e fui convocata nell’ufficio del capoturno.
Il capoturno era seduto alla scrivania, mi squadrò dalla testa ai piedi spingendosi avanti e indietro sulla sedia girevole, non era particolarmente interessato a ciò che vedeva. Annuiva come se sapesse qualcosa e l’avesse sempre saputo, sbadigliava annoiato.
Sbadigliando disse, senta, qui da noi il saluto all’ora dei pasti è la prassi.
Dissi, non so a cosa si riferisce.
Disse, lo sa benissimo.
Ovvio che lo sapevo. Ma non avevo intenzione di restare in quella fabbrica, di passare la mia vita lì dentro, e semplicemente non potevo soffrire l’espressione “buon appetito”.
Disse, ascolta, la cosa è molto semplice. Se non sei in grado di dire buon appetito, sei licenziata.
Non era una questione di parole, era una questione di regole e di potere. Per un momento pensai a quel tu improvviso, alla temperatura in uell’ufficio, la stanza dove il capoturno ammazzava il tempo; ci fissammo a vicenda.
Poi mi congedò.
La sera sedevo spesso sul mio balcone al quinto piano. Uno degli inquilini precedenti ci aveva lasciato le sue fioriere, in quelle fioriere crescevano piante che non avevo mai visto prima. Delicati steli verdi con fiorellini bianchi, grandi come capocchie di fiammifero, io non li annaffiavo mai, eppure quelli resistevano. Sul balcone c’era l’erba sintetica, un tavolo pieghevole con un’unica sedia, e la vista dava sulla strada ad alto scorrimento e sulla stazione di servizio.
A me quella vista piaceva tanto.
L’insegna al neon blu della stazione di servizio, le macchine che andavano e venivano, gli espositori con quei bouquet tristi, avvolti nel cellofan, i sacchi di carbone per barbecue davanti alla porta. Il modo in cui la gente scendeva dalla macchina, faceva benzina, guardava trasognata le cifre digitali che scattavano alla rinfusa sulle colonnine, entrava e sfogliava giornali, comprava birre, cioccolatini e mentine. Io mi immaginavo che stessero tutti partendo per un lungo viaggio, facevano il pieno, erano diretti molto lontano, gente di passaggio, che se le chiedi indicazioni alza le spalle e dice, eh, non saprei, neanch’io sono di qui. Mi spiace.
Io stavo seduta su quell’unica sedia sul balcone, mettevo i piedi sul tavolo e fumavo le sigarette della fabbrica, scrollando la cenere oltre il parapetto e buttando i mozziconi in una lattina di Coca-Cola, all’epoca fumavo parecchio. Quell’estate faceva un gran caldo e io rimanevo seduta là fuori in mutande finché non era tardi e finalmente buio. A poco a poco negli appartamenti si accendevano le luci, i fari delle auto baluginavano sulla strada ad alto scorrimento, il sole non c’era più, il caldo restava. Non diminuiva, persisteva immutato tra le case. Io presi l’abitudine di andare giù alla stazione di servizio a comprare il gelato. Mi infilavo un vestitino leggero e le infradito, prendevo le chiavi e gli spiccioli e scendevo giù, non usavo mai l’ascensore, passavo dalla tromba delle scale afosa e sudicia, e non accendevo mai la luce. Fuori faceva ancora più caldo, l’asfalto si scioglieva per via del caldo e tutte le finestre erano aperte, si sentivano TV accese, litigi, porte sbattute. Le auto si avvicinavano alle colonnine al rallentatore, la gente faceva il pieno come in trance. La porta del negozio si apriva da sola, dentro era luminoso e fresco. C’era sempre la radio accesa. Io aprivo il freezer dei gelati, indugiavo il più possibile lì davanti, poi prendevo un biscotto gelato. Sempre e solo un biscotto gelato, mai qualcos’altro, eppure ogni volta facevo finta di non riuscire a decidermi. Alla cassa c’era una signora dell’età che ho io oggi, stranamente leggeva un libro e lo posava con estrema riluttanza quando doveva incassare, la cosa mi colpiva. Ogni sera c’era la stessa signora, e in tutta l’estate non ci capitò mai di scambiare due parole.
 
[da A casa di Judith Hermann, trad. di Teresa Ciuffoletti, Fazi, 2024]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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