Quando il 20 gennaio il mondo ha saputo della scomparsa di Claudio Abbado da subito c’è stata la consapevolezza che se ne fosse andato più di un direttore d’orchestra. Il livello di perfezionismo e cura nei dettagli che ha portato nel suo lavoro ha di fatto trasceso le stesse opere che portava in scena. «La sua perdita per il mondo della musica è stata senza dubbio di quelle dolorose» dice il maestro Franco Petracchi, docente di contrabbasso all’Accademia Chigiana e uno dei più noti solisti e direttori che l’Italia possa vantare. Petracchi con Abbado ha condiviso molti momenti della propria carriera e per questo ne conosce anche il lavoro nei minimi dettagli.
Maestro in cosa si caratterizzava l’esecuzione di Abbado?
«Aveva un’esecuzione perfetta; non si è mai presentato con un brano che non fosse stato studiato nei minimi dettagli, penetrato nell’anima. Inoltre, a differenza di tanti grandi direttori d’orchestra, lui non ha mai sbagliato nulla, neanche il cast. Si documentava molto e aveva il pregio di riuscire a fare una sintesi di tutto. Io ho avuto modo di seguirlo fin dall’inizio e lui ha avuto la grande intelligenza di andare a studiare a Vienna, assimilando così i grandi classici tedeschi e austriaci».
Caratterialmente com’era?
«Meraviglioso… io l’ho sempre avuto davanti agli occhi come se non fosse mai invecchiato. Lui è sempre rimasto un ragazzo di venticinque anni. Mi ricordo quando prima dei concerti giocavamo a ping pong ed era sempre una battaglia, era bravissimo e con una grande energia. Poi alle prove non era il tipo che parlava molto, si affidava all’orchestra in quei casi, ma quando partiva il concerto si trasformava. In quel momento lo potevamo vedere con una sicurezza e un carisma unici, ineguagliabili».
Il maestro Abbado ha studiato a Siena ed è rimasto legato alla Chigiana, com’erano i suoi rapporti con la città?
«Sono sempre stati ottimi. Ha studiato a Siena e i suoi primi passi li ha percorsi all’Accademia, per questo si è sempre sentito a suo agio a Siena. I momenti più belli della sua vita li ha trascorsi in quel periodo nella città del Palio».
Come può un neofita avvicinarsi all’opera di Abbado?
«Prima di tutto potrebbe cominciare confrontando le esecuzioni di altri direttori. A differenza di quest’ultimi, infatti, lui ha avuto il coraggio di rivedere anche quello che aveva fatto quarant’anni prima, rifacendolo e approfondendolo. Avendo davanti agli occhi la partitura originale ci si rende conto di come tutto fili alla perfezione quando si tratta delle sue opere; ci sono capolavori di Abbado ineccepibili, ad esempio il suo Viaggio a Reims è fondamentale nella storia della musica, è semplicemente la perfezione, qualcosa di insuperabile».
Qual è un ricordo del maestro Abbado che l’accompagnerà per sempre?
«Una volta, verso l’inizio degli anni ’70, mi chiamò per suonare nella sua orchestra. Purtroppo non sarei riuscito ad arrivare in tempo per le prove, così lo chiamai e lui con molta tranquillità mi disse “perché pensi di aver bisogno delle prove? A me prove con te non servono”. Fu un bel momento che mi ricorderò a lungo. Ci tengo a dire che Abbado non è morto a ottant’anni, lui ne aveva venticinque; la sua energia, il suo entusiasmo e il su sorriso sono sempre stati quelli di un ragazzo. Anche quando tornò a dirigere dopo la malattia fu qualcosa di straordinario, era ancora meglio di prima, ancora oggi non so come abbia fatto a raggiungere un tale livello, era qualcosa di incredibile».
Francesco Anichini
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