“Hai da accendere? Almeno ci fumiamo una paglia mentre facciamo due chiacchiere”. Ma come? Mi chiedo. E io che mi ero fatto tutte quelle paranoie anche solo sul come rompere il ghiaccio per un’intervista che aspettavo da tempo con l’autore del libro che da più di dieci anni staziona sul mio comodino. Il libro che mi ha rubato più di qualche notte “tutto d’un fiato”. Quelle pagine che ho letto e riletto e non smetterei mai di leggere. Quelle pagine che sembrano raccontarmi meglio di quanto avrei potuto far io stesso. Quelle frasi scritte come avrei voluto scrivere per mettere in riga i miei pensieri, esperienze, paure, sogni o progetti. Il mio libro preferito per farla breve. E lui, Enrico Brizzi, mi chiede da accendere. Neanche le formali presentazioni. Niente. Sembra che ci conosciamo da non so quanti anni. Il tempo di accenderci vicendevolmente una sigaretta e ci troviamo a sedere su uno scalone al cospetto del Duomo. Mi sento proprio un “pinolo gentile” – come scriverebbe lui – ad essermi fatto tutte quelle paranoie. E allora via a quegli inutili e stupidi freni reverenziali, è il tempo dell’intervista tanto attesa. Neanche, è il tempo di fare due chiacchiere sul come fosse nato quel libro, quanto e come si fosse evoluto di pagina in pagina, quanto fosse autobiografico, quanto ci fosse di reale e quanto di immaginario. E così trascorriamo il poco tempo a disposizione tra i miei e i suoi di pensieri, esperienze, paure, sogni e progetti. In frasi che si perdono lasciando però in testa il piacevole gusto di tutte quelle parole che hanno un valore. Ci resta solo il tempo di salutarci e quello di una dedica scritta sul libro a suggellare quella chiacchierata. E’ solo in quel momento che mi chiede come mi chiamo e ci presentiamo per assurdo solo al momento di salutarci. “Ciao Enrico”. “Ciao Cristian, grazie, è stato un piacere”. Una stretta di mano, non di quelle formali, ed un’altra sigaretta – o paglia come direbbe lui – per concludere come avevamo iniziato. Rimane il libro. Sapevo forse che mi avrebbe segnato fin dalla prima volta che ho letto la prima pagina. So per certo che mi segna tuttora quando puntualmente o periodicamente lo rileggo ed in maniera diversa o uguale è capace di darmi sensazioni diverse e uguali. Quelle sensazioni indubbiamente legate ai ricordi che sono un po’ anche il filo conduttore del libro stesso capace di catapultarmi nel passato, recente o lontano, e nel futuro. E in definitiva, chi eri tu, e chi erano i tuoi amici, ciascuno con la sua maschera, i comportamenti stilizzati, le interpretazioni della vita al posto della vita vera (…) o il lampo verdazzurro d’uno sguardo che richiamando ti teneva indietro, in un teatrino d’ombre, alla fine, in cui non c’era più posto per i giusti sogni, per immaginare qualcuno come un cigno, e solo si bruciava, d’incazzature e rabbie e seduzioni, in strade e discorsi sempre più poveri, davanti a cui ci si sforzava, disperati e matti, di conferirlo noialtri, un senso, intanto che il passo fluviale del mondo, tutti quanti noi ciechi e sordi, ci trascinava…. “Tre ragazzi immaginari”. E’ questo il titolo del mio libro preferito per farla breve.
Cristian Lamorte
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