Si è felicemente conclusa la
kermesse pisana in maggio a Leopardi. Nella chiostra del Palazzo della Carovana, alla Normale, sono stati letti i
Canti, intervallati da una colonna sonora curata dai Campos. Pertinenti immagini sono state proiettate a far rivivere giorni lontani. Una sequenza di due settimane, iniziata il 18 giugno a Palazzo Roncioni con la lettura delle
Operette Morali, in attuazione di un programma elaborato dagli studenti della Scuola Normale e realizzato grazie alla partecipazione di centinaia di appassionati. È stata una delle iniziative più significative tra la miriade di appuntamenti in calendario nell’anno dedicato al duecentesimo compleanno di una delle poesie più note del filosofo-poeta:
L’Infinito.
Pisa ha di che esser grata a
Giacomo Leopardi e ha voluto rendergli omaggio evocando un periodo frenetico della sua travagliata vita. Quando, in provenienza da Firenze, Giacomo sbarcò sui Lungarni, all’altezza del Ponte di mezzo, a metà pomeriggio del 9 novembre 1827, restò colpito da uno spettacolo che non avrebbe più dimenticato, e lo dipinse con un tale trasporto che la lettera di resoconto indirizzata alla sorella
Paolina il 12 successivo, è una delle più briosamente descrittive di tutto l’epistolario: «Sono rimasto incantato – esordisce – di Pisa per il clima: se dura così sarà una beatitudine». Non fu soltanto il meteo a conquistarlo. Pisa era movimentata da un invidiabile cosmopolitismo: città davvero europea, unica. E quei Lungarni stupefacenti avevano il fascino di un teatro: «Vi si passeggia poi nell’inverno con gran piacere, perché vi è quasi sempre un’aria di primavera: sicché in certe ore del giorno quella contrada è piena di mondo, piena di carrozze e di pedoni: vi si sentono parlare dieci o venti lingue, vi brilla un sole bellissimo tra le dorature dei caffè, delle botteghe piene di galanterie, e nelle invetriate di palazzi e delle case, tutte di bella architettura». Aggiunse un’osservazione che ha suscitato non banali risonanze nella critica: «Nel resto poi, Pisa è un misto così romantico che non ho mai veduto altrettanto».
Chi ha da sempre insistito sull’estraneità di Leopardi dal movimento romantico in senso stretto e ideologico s’imbatte in un giudizio che spiazza. Qui il poeta usa il termine per alludere ad una temperie artistica, rifiutata nei suoi fondamenti filosofici, ma ben percepibile nei fremiti di un classicismo non imitativo, né formalistico. Eccone la riprova in una missiva indirizzata a
Giovan Pietro Vieusseux nello stesso giorno di tersa luce novembrina: «io trovo qui un misto di città grande e di città piccola, di cittadino e di rustico, tanto nelle cose, quanto nelle persone: un misto propriamente romantico». Leopardi fisserà la sua dimora in via Fagiuoli, ora via della Faggiola. Stava in subaffitto presso
Giuseppe Soderini, che l’abitava con la moglie
Anna e la cognata
Teresa, una bionda e riccioluta ragazza di Barga, famosa per un’intervista rilasciata in tarda età (nel 1897) sui suoi rapporti con l’illustre rettante. Che si era di lei invaghito, stando a quanto confessò. All’indiscreta domanda dell’intervistatore («Crede che il Leopardi sentisse amore per lei?») Teresa rispose con disarmato candore: «Sì, e ci si sarebbe attaccato; ma Dio mio, io ero troppo giovine…Anche la gente diceva che il conte era innamorato di me». Precisò pudica: «Quando sentii spettegolar dalla gente, ci rimasi male. Se veniva qualcuno ed io ero accanto a lui, mi alzavo e andavo più in là. Quando tornava a casa Giacomo sonava il campanello in un modo speciale che io conoscevo: Giacomo ci si divertiva. Mi affacciavo e lui…vedesse come rideva!». L’intensità giocosa di questa simpatia e il nome Teresa, identico a quello della
Teresa Fattorini da Recanati, hanno perfino fatto ipotizzare che il risveglio lirico attestato da
A Silvia, composta il 19 e 20 aprile del ’28, sia dovuto ad un’eccitante coincidenza amorosa. Bisognerà prendere la chiosa con le molle.
Dalle parole estorte alla
Lucignani si apprende molto delle abitudini del poeta. Il conte si cambiava la camicia una volta al mese, puzzava che non gli si stava vicino. Il destino dei corpi non coincide con la purezza dell’ispirazione, anche se le biografie non sono tutte da relegare nell’archivio del
gossip superfluo. «Teresa – ha notato
Rolando Damiani – si era talvolta consolata con la fantasia di un matrimonio con il poeta, ma aveva sempre concluso, con la stessa ingenuità della sua esistenza, che avevano idee troppo opposte per andare d’accordo». L’umile Teresa non fu la sola donna con la quale Leopardi ebbe a Pisa frequenti incontri. Altri nomi del suo affollato
carnet di mondani appuntamenti sono notissimi:
Sofia Vaccà e
Lauretta Cipriani Di Lupo Parra vi primeggiano. Del quartetto più consueto due donne non erano italiane:
Madame Mason era di famiglia irlandese e Sofia francese. Prediligeva, non c’è che dire, le straniere. La più famosa della schiera fu però
Elena Mastiani Brunacci, che abitava in un bel palazzo in via del Carmine, oggi Corso Italia. Per le passeggiate Leopardi percorreva a lenti passi una via che tanto somigliava ad una dell’amato «borgo selvaggio» da meritare il titolo di via delle Rimembranze: «là vo a passeggiare quando voglio sognare a occhi aperti». Non pochi erano gli intellettuali che gli rendevano spesso visita e volentieri l’andavano a trovare.
Giovanni Rosini non gli dette requie: un rompitascatole di prima grandezza, che lo obbligò anche a correggere parte delle bozze di un libraccio che andava preparando sulla scia del successo dei
Promessi sposi,
La monaca di Monza: «il suo fiuto di editore – ha scritto
Fiorenza Ceragioli – aveva colto la possibilità di successo del libro per la sua casa editrice e capì che l’impresa gli avrebbe garantito un profitto economico di cui la sua attività aveva costante bisogno». Ne furon tirate addirittura venticinque edizioni e contò un mucchio di traduzioni.
Insomma il soggiorno a Pisa ci presenta un Leopardi mondano e soprattutto un autore che avverte riaffiorare la vena di un tempo: «Io ho finito ormai – informa Paolina il 2 maggio – la
Crestomazia poetica: e dopo due anni, ho fatto dei versi quest’Aprile; ma versi veramente all’antica, e con quel mio cuore d’una volta…». La mattina dell’8 giugno 1828 Leopardi era di nuovo a Firenze, a porta di San Frediano. Paolina fu talmente impressionata dalle lodi per Pisa dell’inquieto fratello che in tarda età si recò, devota pellegrina, in riva d’Arno. Desiderava anche lei godere della luce di quel luogo incantato. Dove ebbe venerante rispetto e fu trattata con tutti i riguardi. Prese alloggio all’Albergo Reale della Vittoria (oggi Royal Victoria Hotel),
suite 4, e là morì il 13 marzo 1869. S’ammalò per una maledetta gita a Firenze, durante la quale prese parecchio freddo. In una lettera all’amica
Artemisia Fucili, in data 27 febbraio, scrisse: «Sono stata a Firenze dove faceva un freddo del diavolo, e non ho sofferto al petto: - mi son costipata, è vero, ma è perché ho girato troppo (sempre in carrozza, ma con sciupo di persona e con fatica). Ora, riprendo fiato in questo tranquillo soggiorno, e mi dispongo in pace a lasciarlo». E lo lasciò di lì a poco per sempre.