Dopo molti anni di assenza dal settore l’artista Arturo Reboldi torna (quasi) subito a dipingere, proponendo un lavoro che non è solo una meditazione sul fare pittura, ma anche una riflessione sull’identità dell’artista stesso. Da qui nasce “Torno (quasi) subito” la mostra allestita a Firenze nella Limonaia di Palazzo Medici Riccardi dal 10 al 22 luglio.
La mostra - L’esposizione è costituita da quarantasei pitture su tavole di legno di differenti dimensioni fruibili in un particolare display dove i quadri sono accostati l’uno sull’altro e l’uno accanto all’altro in modo da formare sei grandi pannelli pittorici. In questo modo i singoli ritratti, i paesaggi e le scene conviviali, che sono raffigurati in uno stile al limite tra il figurativo e l’astratto, acquistano una nuova lettura di tipo corale e collettiva. I quadri che compongono le pareti pittoriche come se fossero dei collage di tante storie parallele seppur connesse, appartengono a tre differenti categorie di genere: il ritratto, il paesaggio e la scena conviviale. Reboldi adotta volutamente questi generi codificati a metà ottocento da parte della nuova borghesia per indagarne da vicino la loro identità, la loro attualità e per immetterli in una discussione propositiva e aperta. Per questo motivo sono nati dei veri e propri cicli, che portano i titoli significativi di “Qualunque cosa mi capita di pensare”, “Chiunque mi capita di vedere”, “Ovunque mi capita di andare”.
Dal design alla pittura - La storia di Arturo Reboldi è parte integrante della sua opera artistica. Dopo anni passati nei territori limitrofi all’arte, principalmente nel design e nell’architettura, dopo aver lavorato a importanti committenze (come Oliviero Toscani, Michelangelo Pistoletto e Jannis Kounellis) - nei quali le relazioni tra arte e/o arte applicata hanno rappresentato un dibattito acceso e spesso conflittuale - Reboldi ritorna alla pittura, alla gestualità e soprattutto alla solitudine del lavoro. Un percorso personale in antitesi alla progettualità, alla relazione tra oggetto e committenza e al lavoro collettivo di studio che non rappresenta tanto la negazione delle precedenti esperienze, ma il suo superamento. In un’epoca di iperprogettazione generalizzata è nata nell’artista l’esigenza di tornare a un isolamento affollato di immagini mentali; un bisogno di scollegarsi dalla prevedibilità progettuale per concentrarsi nell’istante quotidiano. Il confronto con lo spazio della tela, o della tavola, non è un chiudersi alla complessità del mondo, ma semmai un processo che chiarisce, rende più evidenti e tangibili le cose che ci circondano.
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