Una vicenda umana e letteraria che scosse le coscienze e gli animi non solo dei senesi. Alla riscoperta di Dina Ferri, la poetessa pastora nata ad Anqua, nel comune di Radicondoli più di un secolo fa, il nostro direttore Luigi Oliveto ha dedicato tempo ed energie. Oggi i suoi studi iniziati negli anni ’80 e l’impegno che portò alla ristampa anastatica dei Quaderni del nulla (ed. Il Leccio) sono state oggetto di un articolo uscito su Repubblica Firenze a firma dello scrittore Filippo Bologna. Di seguito vi riportiamo un estratto del pezzo uscito domenica 8 agosto.
“E’ ricoverata a Siena, nel vecchio Spedale del Santa Maria della Scala, “reparto delle donne povere”. Letto numero 185, un numero come tanti. La bella Signora dall’abito nero, come la chiama lei, se ne è appena andata. Prima di andarsene le ha posato le labbra sulla fronte madida e le ha passato la mano sugli occhi sbarrati. Su quel giaciglio pesante come la pietra c’è una ragazza, ha poco più di vent’anni: con vent’anni in cuore - sembra follia la morte - eppur si muore, ha scritto in una lettera al babbo. Sulla cartella clinica c’è scritto Dina Ferri, nata ad Anqua, Radicondoli, il 29 Settembre. La diagnosi è tubercolosi intestinale con infiammazione del peritoneo. L’hanno operata, un tentativo disperato, ma non c’è stato niente da fare. Ha passato tutto l’inverno a letto, le giornate maledette a scrivere sul suo quaderno, a guardare la pioggia battere sui vetri delle finestre, le notti a sentire il vento mugghiare nella forra di Sant’Ansano, a sognare la campagna sprofondata nel silenzio. Nei sotterranei dell’ospedale c’è una piccola cappella imbiancata a calce, ci finiscono i cadaveri destinati agli studi anatomici. La mettono lì. E’ il 18 Giugno del 1930, Federigo Tozzi è morto da una decina d’anni nella diffidenza dei suoi concittadini, e a Siena è di nuovo primavera. Il sole scalda i mattoni di Piazza del Campo, le rondini incrociano nel cielo e l’aria profuma d’erba falciata. A Dina sarebbe garbata una giornata così, ci avrebbe scritto una poesia nel suo diario. Chi è questa ragazza sepolta nel Cimitero della Misericordia di Siena alla presenza di pochi parenti, una maestra, e qualche compagna di scuola? E’ Dina Ferri, la poetessa-pastora la cui fama ha scavalcato le anguste mura di Siena. No, chi è davvero Dina. Difficile a dirsi, troppo esigua la sua produzione, troppo breve la sua esistenza. Della sua vita lei stessa dice che è un libro di quattro pagine. A pagina 1 di quel libro troviamo la piccola Dina, che pascola il gregge nelle campagne di Ciciano, vicino Chiusdino. Dina sogna di diventare una brava ricamatrice e aiutare i genitori al podere. Il padre, Santi Ferri, è un mezzadro socialista, autodidatta, uomo aperto e intelligente, Dina con lui ha un rapporto speciale. La madre, Rosa Vichi, è una brava donna che s’ammazza di fatica per campare Dina e i suoi fratelli. A pagina 2 del libro c’è Dina che torna a piedi da scuola, ha frequentato con profitto le elementari. Nel frattempo la famiglia cresce, sono arrivati una sorella e un fratello e bisogna tornare a lavorare nei campi, ognuno deve fare la sua parte. Mentre batte forte i piedi sulle scale del podere per staccare il concio dalle suole degli scarponi il piccolo cuore batte forte: sui banchi di scuola è nato un amore, nemmeno troppo innocente. Dina si è innamorata della poesia e ha deciso: sarà la sua sposa, finché morte non li separi. La piccola ha imparato a leggere e scrivere, ha scoperto che c’è una parola per ogni cosa, per i fiori che sbocciano a primavera, per i torrenti che gorgogliano d’inverno, per gli uccelli che cantano tra le siepi, per le maggesi che imbruniscono d’autunno e le stoppie che imbiancano d’estate. Ha preso l’abitudine di portare sempre con sé un quaderno, Quaderno del nulla, l’ha battezzato con modestia, ovunque vada il quaderno la segue. Dunque tutta la bellezza del creato che le riempie gli occhi e il cuore da mattina a sera si può fermare prima che svanisca per sempre. Bastano una penna, un foglio e le parole giuste. Dina principia a scrivere quello che vede, a esprimere quello che sente. La ragazza è dotata, se ne rende conto anche la maestra - “Dina Ferri scrive meglio di me…” - dice mentre corregge temi e riassunti della sua alunna, che meriterebbe di proseguire negli studi. Ma all’epoca l’istruzione è un lusso, la vita in campagna è dura, e anche una bimba può fare la sua parte. Un giorno Dina torna a casa: il podere è stato assaltato dagli squadristi che vogliono dare una lezione al babbo socialista. “Perché tanto male nel mondo?”, Dina se lo chiede di continuo. Lo chiede anche al babbo, che ateo com’è forse non sa dargli una risposta rassicurante, ma sa che con quel male bisogna convivere e lottare. Eppure perché si deve morire? Perché è tutto così triste? Queste domande la tormentano, diventano l’accompagnamento sommesso a tutti i suoi pensieri. Chissà se ci sta pensando anche quando si porta via tre dita della mano destra col trinciafieno. Con la mano così conciata bisogna salutare il sogno di cucirsi il corredo per quando sarà sposa. Tre dita sono un prezzo troppo alto per proseguire gli studi, ma se il premio è quello di ritrovare i suoi amati libri, compagni fidati e non ciarlieri, si può anche pagare. Questa volta non è soltanto la maestrina fascista ad accorgersi della sua bravura, persino l’ispettore scolastico ne rimane sorpreso. Bisogna che la ragazza coltivi le sue inclinazioni. Riescono a farle ottenere una borsa di studio, il Monte dei Paschi vede e provvede. Addio ai monti Dina, si va in città".
L'articolo continua sul sito La Repubblica Firenze
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