Ricordo le prime volte che, da bambino, insieme a mio padre, ho attraversato in treno la Val d’Arbia e la Val d’Orcia. Era un viaggio avventurosissimo. La mia famiglia risiedeva a Castello, vicino Firenze, e da là con il treno partivamo per Siena dove pernottavamo in una locanda del centro. Al mattino successivo, intorno alle quattro e mezzo, dalla stazione di Siena si muoveva verso Amiata per proseguire poi, in pullman alla volta di Samprugnano (oggi Semproniano), il paese d’origine dei miei genitori. Che avventura!, che Far West…! Il pullman, un cassettone stracarico di umanità e di cose, emanava un terribile odore di nafta. La partenza era preceduta da elaborate operazioni di imbarco e, fatti pochi chilometri, donne e bambini assumevano ben presto il volto terreo e imbronciato del mal d’auto. Quindi… fermate a non finire. Poi c’era la fase, per me bellissima, della sosta alla Triana, una fattoria dei Piccolomini, con un castello rudemente maremmano e un fabbricato più modesto dove aveva stanza l’appalto, una bottega che vendeva di tutto.
All’epoca ero un bambino molto vivace, non andavo mai di passo, correvo sempre. Il babbo, uomo di poche parole, mi chiamava con l’affettuoso appellativo di “tanacca” (forse era il nome di un brigante ottocentesco). Ma in quei viaggi la mia vivacità era tutta concentrata sui luoghi, sulle assonanze dei loro nomi: Ponte a Tressa, Ponte d’Arbia, Monteroni, Buonconvento, San Giovanni d’Asso, Trequanda… Divenuto giovane studente e poi da adulto, tante altre volte avrei viaggiato attraverso queste terre grigie, prive di qualsiasi dolcezza d’alberi. E da sempre ne ho colto un mistero di vita e di morte. Ancora oggi continuo a chiedermi: chi è murato in quella crosta terrestre? E’ terra che richiama gli scomparsi o i venturi? E’ una sorta di inquietudine che arrovella il pensiero. Una perenne sollecitazione che scaturisce proprio dalla terra. Soprattutto nel passato – dentro l’animo la tortura del dilemma – guardavo la distesa delle crete senesi cercando di comprendere quale pedaggio vi si dovesse assolvere per accedere alla perennità di vita che sempre lì, e comunque, vi si racchiude. E’ infatti una terra che assorbe morte, ma per restituirla in vita.
Questo mistero quasi pasquale, abita in maniera diversa e forse più solenne, anche la Val d’Orcia, tanto che, guardandola, mi è venuto da scrivere: “la terra / che ci s’era prima aperta / nuda, secca / di cenere e di calce, / bruciata da una luce sua, la trova / ora prativa / ciascuno, e tenera / in tutte le sue valli…”.
[Mario Luzi, da “I mesi della Terra di Siena”, a cura di C. Fini e L. Oliveto, Apt Siena, 2000]
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