Lo dice il nome stesso. Si chiama “Lizza” perché verso la fine del Cinquecento era questo un luogo destinato a tornei ed esercitazioni equestri, fino a quando, nel 1779, si intese valorizzare la zona trasformandola in passeggio pubblico e incaricando Antonio Matteucci di disegnarla a giardino. Tale è ancora oggi, piccolo polmone verde in perenne ostaggio di assatanati e parcheggianti automobilisti, ritrovo di badanti in giorno di libertà, spazio dove una giostra per bambini alterna i suoi giri con altri caroselli, quelli dei ricordi di chi, ora in pensione, seduto su una panchina conta a sassolini di ghiaia, le ore che lo separano dalla desina.
Salvo qualche raro superstite, ormai quasi nessuno può raccontare per testimonianza diretta ciò che La Lizza fu nei primi decenni del Novecento e tantomeno in epoca ottocentesca. Lungo i suoi viali passeggiarono ospiti illustri quali Arthur Symons, Vernon Lee, Henry James e Paul Bourget che erano soliti prendere alloggio al Grand Hotel Royal (ingresso da via Camollia e affaccio sul Passeggio). Alla Lizza abitarono per alcuni anni le figlie di Alessandro Manzoni, Vittoria (moglie di Bista Giorgini, docente all’Università di Siena) e Matilde. In una lettera indirizzata proprio alla malaticcia Matilde – che in quella casa morirà a soli 25 anni – il padre Alessandro scriveva: “E corro anch’io col pensiero alla casa che guarda sulla Lizza, e se corro nell’andarci, non fo lo stesso nel partirne”. E ancora all’ombra di quei tigli ebbero modo di sostare Giovanni Marradi, Giovanni Comisso, Carlo Betocchi, Leonardo Sciascia.
I nostri vecchi amavano fare memoria di spettacoli e veglioni al Teatro della Lizza (già Teatro Montemaggi, dove, peraltro, Garibaldi l’11 agosto 1867 aveva tenuto un vibrante discorso), ricordavano certe serate trascorse al dancing del “Giardino dei Tigli” sorto successivamente tra i ruderi di quello stesso Teatro, il palco su cui ogni domenica si esibiva la banda cittadina, il fotografo ambulante che ritraeva soldatini di leva e fidanzatissime coppie orgogliose di mettere in posa amori che a quei tempi, pure quando finivano, erano comunque eterni.
Su tutto questo piccolo mondo teneramente provinciale, a volte perfino un po’ mondano e pretenzioso, si stagliava Lui, Giuseppe Garibaldi, l’Eroe dei due Mondi, che dall’alto del suo destriero ribadiva il mito di se stesso e di una storia collettiva. Monumento, dunque, ad un’idea di patria, di mondo, di progresso sociale.
Ma la realizzazione di quella statua equestre che tutt’oggi, da dietro il logorio del tempo, proclama l’essenziale dedica: “A Garibaldi i senesi”, non fu cosa semplice. Infatti, se tempestiva risultò la volontà del Consiglio comunale nel voler onorare in questo modo l’Eroe (decisione presa solo cinque giorni dopo la sua morte avvenuta il 2 giugno 1882), non altrettanto celere fu la messa in opera del monumento che il Comune intendeva allora collocare “nell’arcata centrale del porticato di Piazza Indipendenza o in altro luogo” [...]
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