“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Non è soltanto la conclusione de “Le città invisibili”. Non lo è per me, perlomeno. Sono cinque righe di parole scritte a macchina su un pezzetto di carta ingiallita. Sono la traccia di un tema che, in quarta superiore, il mio professore di italiano mi dette credo forse per farmi perdere in chissà quali considerazioni o riflessioni di un diciassettenne. A 13 anni di distanza non ricordo bene cosa scrissi o quale fu il voto scritto in rosso nell’ultima pagina di quel foglio protocollo diviso a metà. A 13 anni di distanza, però, ricordo perfettamente che mai come quella volta, mai prima di allora con lo stesso piacere, le considerazioni e le riflessioni prendevano vita da una penna e non per perdermi tra frasi e parole ma per trovarmi tra mille pensieri. A 13 anni di distanza quel pezzetto di carta ingiallita con le parole scritte a macchina è ancora lì, da quel giorno appiccicato con lo scotch sopra quella scrivania che, da allora, più di qualche volta ha visto prendere vita in una penna o in un computer le considerazioni e le riflessioni. Qualche volta per perdersi tra frasi e parole, altre volte per ritrovarmi tra mille pensieri.
E’ questo il mio legame personale con Italo Calvino. Magari un legame immaginario e reale al tempo stesso, effimero e forte, infantile e profondo, semplice e ricco di significato. Magari proprio per questi motivi è proprio un legame calviniano. E sono fiero che sia fatto di parole e pensieri perché niente più delle parole e dei pensieri ti può legare a uno scrittore. Oggi, rispetto a 13 anni fa, mi trovo più in sintonia con Palomar piuttosto che con il Barone Rampante. Oggi, rispetto a 13 anni fa, in maniera diversa mi perdo nelle Città invisibili. Oggi, rispetto a 13 anni fa, comprendo un po’ meglio i tarocchi del Castello dei Destini Incrociati. Oggi, però, come allora, queste cinque righe hanno sempre lo stesso sapore e il loro significato più profondo è ancora più profondo. E lo so, l’ho appreso dopo, che dietro questo finale de “Le città invisibili” hanno speso tempo e parole fior di critici letterari. Ma non importa, non ho mai voluto leggerli perché sono timidamente geloso del significato che io attribuisco a queste cinque righe e sono convinto che la bellezza e l’essenza della lettura stia proprio nella più personale interpretazione.
A 13 anni di distanza, visto, non più in un tema quanto in un articolo di giornale, quelle cinque righe hanno ancora il potere taumaturgico di dar vita ai pensieri attraverso le parole. Questo, lo so riconoscere, è un qualcosa che, in mezzo all’inferno, non è inferno, per farlo durare, e dargli spazio.
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