Parole di guerra è una collana di libri che ricostruiscono i diari e le memorie di alcuni soldati senesi che hanno vissuto la seconda guerra mondiale. Per Edizioni Cantagalli il curatore è stato Massimo Borgogni. A lui si deve un'intensa attività di ricerca e di investigazione che oggi ci consegna delle pagine intime in grado di raccontare perfettamente cosa ha significato il secondo conflitto mondiali negli occhi e nella penna di chi l'ha vissuto.
Come mai questa mancanza?
“In un clima di forte contrapposizione come quello dell’immediato dopoguerra c’è chi cercò di autoassolversi addirittura con le memorie come nel caso di Badoglio o Roatta. In quel clima tutto ciò che era militare finì per richiamare il fascismo e si cercò di cancellare tutta l’esperienza militare della seconda guerra mondiale. E’ così che una guerra legata al fascismo in qualche modo fa rimanere dentro i cassetti le memorie e i diari di chi la guerra l’ha vissuta davvero e l’ha messa per scritto in pagine. C’era fino a pochi anni fa un timore a raccontare la propria esperienza per non essere additato. Poi, tra la fine degli anni ’70 i primi anni ’80, l’esperienza del fascismo è stata superata, c’è stato un forte mutamento anche all’interno delle forze armate che si sono aperte al Paese ed hanno dato accesso agli archivi militari”.
Un diario o una memoria è sempre un racconto soggettivo, come può essere una fonte attendibile per uno storico?
“L’obiettivo della collana è quello di ricostruire le vicende di questi reduci senesi però con un inquadramento dal punto di vista storico per collocarli in un contesto ben più ampio. Così è stato possibile capire come è stata vissuta la guerra ed anche il grado di coinvolgimento dei militari in una guerra di regime. E’ dunque una fonte interessantissima. Peccato aver perso tanto tempo nell’immediato dopoguerra prima di riaprire e rileggere le pagine di tanti diari che rappresentano un patrimonio per comprendere come è stata realmente vissuta la guerra dal basso.
Cosa emerge ancora oggi da queste pagine di diario?
“Innanzi tutto l’entusiasmo e il coinvolgimento emotivo, soprattutto da parte dei più giovani, al momento della partenza per le campagne militari. L’impatto con la guerra e con la disorganizzazione del nostro apparato bellico farà poi cambiare idea. La cosa che mi ha colpito è che la guerra si fissa nella mente e nei ricordi di coloro che l’anno vissuta in maniera indelebile. Ho trovato casi di persone che si dimenticavano quello che dovevano comprare al momento di fare la spesa ma se tu gli chiedevi della guerra ne facevano un racconto dettagliato. Il difetto che noi abbiamo è che valutiamo queste esperienze con quella che è la logica della società civile e della vita normale ma la guerra modifica qualsiasi reazione dell’individuo.
Un contadino di Monteroni un giorno mi raccontò che prima di partire non riusciva ad uccidere ne un coniglio ne una gallina, in guerra ha ammazzato un sacco di gente. Oppure quando ho guardato per la prima volta il film “Salvate il soldato Ryan” l’ho fatto con mio zio del 1920. E’ un film forte anche per la crudezza di qualche immagine ma ai titoli di coda lui si è alzato e mi ha detto: “Mah, il film è fatto bene ma io ho visto parecchio di peggio”.
Cristian Lamorte
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