Niccolò Ammaniti si confessa a Sienalibri: "In realtà non volevo fare lo scrittore"

il 29/03/2010 - Redazione

Sorride quasi imbarazzato, ammette di dire qualche bugia a fin di bene, a scuola non amava scrivere temi, si è persino laureato in biologia con una tesi dal titolo impronunciabile e confessa di essersi trovato a fare lo scrittore per puro caso. Così si presenta lo scrittore definito dal Times “il nome che sta per talento italiano” ovvero Niccolò Ammaniti. Spiega che la scrittura e la lettura sono stati gli strumenti che gli hanno dato la possibilità di astrarsi dalla realtà e dare spazio alla sua creatività. Scopri, così, che dietro uno scrittore della sua portata c’è prima di tutto un attento e critico lettore che ama qualsiasi genere di libro facendosi mille domande sulla struttura narrativa, i personaggi e gli intrecci.

Che tipo di rapporto avevi da ragazzo con la lettura e la scrittura?
“Ho avuto la possibilità di avere una bella biblioteca a casa, mia madre è una grande appassionata di letteratura, soprattutto inglese, quindi leggevo Stevenson, Conrad, Dickens. Fino a 23 anni ho letto quasi esclusivamente classici e pensavo che la letteratura contemporanea fosse una cosa poco interessante. Poi, per caso, ho incontrato sulla mia strada altri scrittori e così ho letto King, i minimalisti e ho scoperto che c’era anche un’altra letteratura. Da quel momento ho letto di tutto persino gli Harmony. Questo perché mi incuriosiva sapere come si costruiva un libro e quindi sono passato dal ruolo di lettore a quello di osservatore. E poi, per puro caso, ho cominciato a scrivere, in realtà non volevo fare lo scrittore”.
C’è stato un libro che più di tutti ti ha fatto capire che questa sarebbe stata la tua strada?
“No, perché all’inizio mi confrontavo con dei libri davvero troppo importanti e belli di scrittori così capaci che mi sentivo un inetto. Questa voglia è nata da un periodo di disperazione in cui ero all’università e non riuscivo a fare quello che volevo e fuggivo raccontando le storie che avevo in testa, perché in fondo sono sempre state lì ma non avevo mai preso in considerazione di poterle scrivere”.
Quindi la scrittura è stato un po’ un rifugio?
“Mi ha dato la possibilità di lasciarmi alle spalle le cose che in quel periodo non mi piacevano. Avevo la sensazione di non crescere, di continuare ad essere un adolescente, ero grande e continuavo a vivere a casa dei miei. Poi, casualmente ho fatto leggere le mie cose e così ho trovato una persona interessata a pubblicarmele”.
Quali sono stati i libri e gli autori che ti hanno influenzato più di altri?
“All’inizio sicuramente Jack London con Zanna Bianca, mi piaceva come raccontava il rapporto con la natura visto che ho sempre avuto una passione per gli animali e la zoologia. Mi piaceva molto anche Dumas quindi I tre moschettieri vent’anni dopo e Il Conte di Montecristo, perché quando li leggevo sembrava di guardare un film, correvo dietro al libro per arrivare alla fine. In questi libri c’era una specie di necessità di astrarsi dalla realtà e dimenticarsi tutto il resto”.
Quali suggerimenti ti senti di dare ai ragazzi che sognano di diventare degli scrittori?
“Di leggere tanto e chiedersi perché un libro piace piuttosto di un altro, credo che questa sia una domanda fondamentale, forse la prima che si debba fare uno scrittore. È un po’ come trovarsi di fronte un bel quadro, devi osservare i particolari che lo contraddistinguono, capire i meccanismi nascosti dietro la struttura delle cose. Questo è sicuramente un percorso che una persona può fare da solo se appassionato veramente di letteratura”.

Marta Santopolo


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