Qualche volta viene da pensare che in Italia si dovrebbe almeno per un anno applicare una moratoria a tutti gli anniversari, ricorrenze e le commemorazioni. Ne siamo letteralmente costipati. Poi, dopo un anno di silenzio, probabilmente ne apprezzeremmo di più il vero significato, forse un poco purificati dagli stereotipi e dalle letture d’occasione sovraesposte e spesso affette da uno strabismo legato, anzi schiacciato, appiattito sull’attualità. Come liberarsi dagli stereotipi? Leggendo in modo matto e disperatissimo, per ridare tridimensionalità alla storia. Il tema della marcia su Roma non sembra fare eccezione a questa regola. Sarà l’attualità. Ma per farsi una vera idea di quegli anni sarebbe forse meglio cominciare leggendo i giornali dell’epoca come ha ben pensato il Corriere della sera (Il Corriere della sera e la marcia su Roma, a cura di G. Albanese, 2022). È infatti imbarazzante scoprire quanto poco ne sanno le nuove generazioni, complici, anzi vittime di libri di testo scolastici che stanno sempre più assomigliando (in peggio) ai mitici bignami e di uno studio superficiale e anch’esso stereotipato.
La lettura però può cambiare questo stato di cose, per la capacità che i buoni libri hanno di allargare la nostra visione e comprensione di un momento storico in ogni dimensione, conducendoci dal particolare delle storie individuali al generale degli accadimenti sociali o viceversa. E ora che abbiamo enunciato questo concetto, forse un po’ scontato ma comunque sacrosanto, cominciamo contraddicendoci subito, quindi non con un libro ma raccomandando l’ironia dissacrante di un film e muovendo da una frase di Tullio Kezich «È certamente un bene che taluni temi della nostra storia recente, fino a poco tempo fa considerati tabù, siano ormai alla portata di chi ne vuol fare spettacolo». Quella frase in effetti è sacrosanta, e oltre ai libri vedersi il Dino Risi de La marcia su Roma val bene il tempo investito. In quel film c’è un’altra frase-simbolo, proprio verso la fine della pellicola, quando incrociando la linea ferroviaria Rocchetti dice a Gavazza (dopo che le due paradossali camicie nere in marcia sulla Capitale hanno litigato con il comandante del manipolo, lo hanno lasciato tramortito e sono quindi scappati) «E mo’ bisogna decidere sa, o Roma o Orte». Intorno a loro non c’è nessuno, due camicie nere nel deserto. Intanto quella ‘m’ di differenza dice su quel momento più di tanti dotti discorsi. Per una ‘m’ cambia la storia, per un punto Martin perse la cappa, per il filo sottile di una decisione mai presa l’Italia perde la democrazia. Tra l’altro come è stato ricordato di recente da alcuni giornali, la paternità di quella frase è del caustico senese Maccari.
E saltando di frase in frase perché non leggere il Lussu della Marcia su Roma e dintorni (1931), scritto autobiografico giustamente definito ‘gioiello narrativo’ (libro ristampato di recente da Einaudi nella collana ET scrittori), di cui non si può non citare questo passo: «È attorno a Roma che si devono decidere le sorti d’Italia. Mussolini prende il treno a Napoli, traversa Roma e si confina a Milano. Milano era dalla parte opposta, a 600 chilometri da Roma. Se fosse rimasto a Napoli, sarebbe stato più vicino. Originale ubicazione di combattimento. Anche con la strategia moderna, 600 chilometri di distanza dal grosso che si batte sono effettivamente molti. Ma, in compenso, Milano ha il vantaggio di essere a pochi chilometri dalla frontiera svizzera».
Anno certamente interessante, da questo nostro particolare punto di vista, il 1931 quando sempre in Francia, esce Tecnica del colpo di Stato di Curzio Malaparte, all’istante messo all’indice, e bruciato per volontà di Hitler «sulla pubblica piazza di Lipsia, per mano del boia, secondo il rito nazista (…) spietata dissezione delle varie tipologie di golpe e delle loro costanti – rappresentò di fatto il primo, clamoroso successo internazionale di Malaparte» come si legge nella ristampa del 2011 per i tipi di Adelphi. Libro quest’ultimo con spunti molto particolari e passi che si potrebbero definire al contempo profetici e assolutamente attuali. La democrazia va difesa e nulla va mai dato per scontato. Lussu e Malaparte sono due pezzi da novanta, letterariamente parlando.
Ma la Francia e Parigi fanno poi pensare per associazione d’idee a un’altra frase non meno importante: «Una biografia non è il racconto di tutta la vita di un uomo». Questo passo è contenuto in un libro composto da dodici scritti, editi e inediti, di Italo Calvino, usciti dopo la sua morte con il titolo: Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche (Oscar Mondadori 2019). In questi racconti compare quello intitolato I ritratti del Duce. Qui Calvino, mettendosi dal punto di vista di un lettore dell’allora diffusissima Domenica del Corriere descrive a suo modo un momento storico e tutta un’epoca. Colpiscono le sue considerazioni sullo stile di quegli anni, quando i politici in pubblico si presentavano «In abbigliamento borghese, colletto duro con le punte rivoltate come era allora d’uso comune per le persone di riguardo […] La giacca che il Capo del Governo indossava era un tight […] che lui allora portava d’abitudine nelle cerimonie ufficiali […] L’abbigliamento da uomo di stato ne accentuava la giovinezza, perché quella era la vera novità che l’immagine doveva trasmettere […] Neanche s’era mai visto in Italia un uomo di stato rasato, senza barba e baffi, e questo era già di per sé un segno di modernità. (…) L’uso di radersi era già diffusissimo, però gli uomini politici più rappresentativi al tempo della Grande Guerra e del dopoguerra portavano ancora tutti barba o baffi. Quasi in tutto il mondo, direi (sto scrivendo senza consultare libri o enciclopedie), con la sola eccezione dei presidenti americani. Anche i quadrumviri della Marcia su Roma avevano i baffi, e due di loro pure la barba». Già, il nascente fascino e potere dell’immagine e dei mezzi di informazioni di quegli anni, e le intuizioni fruttuose ma anche nefaste che ne derivarono. Gli scrittori non passarono certo indenni da queste sirene.
Un signore del Rinascimento: così Benito Mussolini, subito dopo la presa del potere, appariva agli occhi di Giuseppe Ungaretti. L’unico, secondo il poeta, davvero in grado di spalancare al suo talento la strada del riconoscimento ufficiale e popolare. Si parla nientemeno che de Il porto sepolto il suo vertice poetico: è il 5 novembre 1922 (il 31 ottobre Mussolini era diventato capo del governo, tre giorni dopo la marcia su Roma) e Ungaretti con una lettera chiede e ottiene la prefazione a quella raccolta, che sarà pubblicata nel ’23 (cfr. F. Petrocchi, Scrittori italiani e fascismo). Questo a testimonianza che la marcia su Roma e quanto di seguito avvenne marcano un periodo oscuro che complessivamente non fa grande onore alla letteratura e agli intellettuali e aprono un sostanziale buco nero in tanti aspetti della narrazione non solo storica ma anche letteraria di quegli anni. Questo comprende non solo la marcia su Roma ma anche i colpi di lì a poco inferti alla Capitale dallo squadrismo. Si colpisce duramente nei quartieri storici della città certo, ma anche in snodi importanti della vita culturale e letteraria della Capitale. Ecco che allora che gli scrittori, con gli accadimenti della loro vita e delle loro vicissitudini in quel periodo, in uno strano gioco di inversione diventano essi stessi materia letteraria: per una volta è la Storia a scriverli.
In questo senso Roma divisa. 1919-1925. Itinerari, storie, immagini edito da Il Saggiatore (2014) ha un merito non indifferente. I suoi interessanti percorsi in una città che non c’è più ci portano sulla soglia di uno storico caffè, il Caffè Aragno, aperto nel 1886, che poteva vantare una clientela fatta di letterati e artisti, ma anche di politici e giornalisti. I letterati quali Cardarelli, Marinetti e molti altri si ritrovavano con regolarità nella Terza Saletta. Ma la marcia su Roma, come il libro racconta, non colpì solo le sedi dei sindacati o i quartieri, ma anche questo tipo di luoghi: la Saletta scomparve e pian piano i letterati frequentatori del locale lo disertarono. Per spegnere una democrazia si doveva spegnere anche la voce libera della letteratura.
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