“Mai pensare ai lettori per un libro non ruffiano”. Parla lo scrittore Marco Buticchi

il 02/04/2012 - Redazione

Si chiama “La voce del destino” (Longanesi) ed è l’ultima fatica letteraria di Marco Buticchi, scrittore di romanzi storici da un milione di copie vendute. Una carriera tutta in vetta alle classifiche, un continuo accostamento a penne di fama mondiale quali Wilbur Smith, Clive Cussler o Ken Follett. Fresco del prestigioso premio “Salgari”, sarà tra i finalisti del prossimo Bancarella. Lo abbiamo incontrato di passaggio a Poggibonsi, alla libreria Mondadori-Disco Shop, insieme ai suoi appassionati lettori. «La nomination al Bancarella mi riempie di gioia. È una grossa soddisfazione. Con gli altri lavori arrivavo sempre prima o dopo e non riuscivo mai a parteciparvi. Questa volta sono in finale. Incrociamo dunque le dita».

Nei suoi romanzi c’è sempre un mix tra storia e finzione. Vuole che il lettore si concentri più sull’una o sull’altra?
«Penso che uno scrittore non debba mai pensare ai lettori, altrimenti scriverà un romanzo “ruffiano”. Io penso soprattutto a divertirmi e poi mi accorgo che se mi diverto io, alla fine, si diverte anche il lettore. Se uno, infatti, inizia a scrivere con grandi sogni di gloria, pensando che verrà letto da milioni di persone, alla fine rischia di diventare lezioso ed “incartarsi” su se stesso».

È vero che non si deve pensare a milioni di lettori, ma lei ha comunque milioni di lettori. Sente il peso della responsabilità davanti alla pagina bianca?
«È una cosa alla quale non devo pensare mai. Grazie al cielo la “sindrome da pagina bianca” non mi è mai capitata. Ho imparato che bisogna dedicarsi allo scrivere come fosse un lavoro. Io so che un certo periodo di tempo lo devo trascorrere lì, davanti al computer. Ma se dopo un po’ non riesco, allora mi dedico ad altro: leggo, correggo, ricerco, scrivo un articolo. Mi tengo in esercizio, insomma».

Che effetto fa essere accostati a celebri nomi internazionali come Follett o Smith?
«Le potrei raccontare un sacco di aneddoti che mi legano a quelli che erano i miei riferimenti della letteratura contemporanea, autori che erano il mio sogno e adesso, quando vengono in Italia, mi chiamano per mangiare insieme una pasta al pesto. Una volta dissi a Wilbur Smith che avrei voluto portagli tutti i suoi libri per farglieli firmare, e lui mi rispose “you have to take a carriola” (lo disse in italiano). Dunque un autore che ha scritto una “carriola” di libri, tutti successi internazionali, e che riesce ancora a tirare fuori aspetti esaltanti della propria vita è uno che ha tanto da dire e merita rispetto».

Per lei scrivere che cos’è?
«Una necessità, uno sfogo, un piacere. Poi dipende sempre da cosa si scrive, perché la differenza che c’è tra scrivere un articolo bene e un romanzo è la stessa che c’è tra il guidare bene in città ed essere Michael Schumacher. Qualche volta mi chiamano dal giornale e mi chiedono un pezzo in un’ora. Allora io rispondo sorpreso “…ma come in un’ora?”. Perché per me lo scrivere è fatto di tempi, di ritmi dilatati. Scrivere diventa un lavoro: basti immaginare soltanto la ricerca necessaria per scrivere un romanzo, una ricerca fatta attraverso la lettura di libri noiosissimi che altrimenti non avrei mai letto. Per scrivere si deve studiare, come diceva Emilio Salgari. Quando mi intervistano spesso mi dicono che io, avendo girato il mondo, descrivo ciò che ho visto nei miei romanzi. Certo, questo è vero. Ma viaggiare e vedere non sono sufficienti per scrivere. Per scrivere e descrivere un luogo, devi sedere a tavolino e studiare».

In un suo romanzo raccontava la sconfitta dei Templari e la loro fuga. Mentre in “La voce del destino” parla della sconfitta del Nazismo e della sua ricomparsa in Argentina. Quali sono i tratti comuni?
«Due cose che mi affascinano da sempre sono la sconfitta e la damnatio memoriae. Quando c’è una memoria dannata, io non vedo l’ora di andarci ad inzuppare, come si fa con il pane nel sugo di carne perché nel frattempo si interrompe la storia e si apre il mistero».

Lei, però, scrive quello che gli storici non raccontano, collegamenti tra storie, mondi ed epoche diverse che in qualche modo stimolano la fantasia del lettore...
«La storia è sempre scritta dai vincitori, quindi, per definizione, non è verosimile, non è attinente alla realtà dei fatti e comunque è sempre di parte. Se dopo molto tempo noi andiamo a ripercorrere la storia, questi collegamenti vengono spontanei. Quindi, allo scrittore di romanzi d’avventura non serve troppa fantasia per trovare il “nocciolo sporco” della storia».

“La voce del destino” si riferisce più al titolo dell’opera di Verdi o alla Quinta di Beethoven?
«Si riferisce soprattutto ad una donna con una voce meravigliosa: Luce De Bartolo, che è la protagonista e la cantante più grande di tutti i tempi».

Michele Taddei

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