Storie di donne che, seguendo percorsi diversi, mettono in atto una rivolta. Sono le protagoniste dei romanzi di Elena Mearini, autrice che dedica all’universo femminile le sue considerazioni attraverso storie intense, che lasciano una traccia. Con esperienze artistiche diverse – Elena ha lavorato in teatro a Milano ed ha avuto pure una breve parentesi cinematografica in “Chiedimi se sono felice” di Aldo, Giovanni e Giacomo – la scrittrice non vive barricata dentro un salotto, ma si spende ed affronta anche le parti oscure della vita, probabilmente perché proprio quelle zone d’ombra l’hanno attraversata lasciandole addosso segni tangibili, poi filtrati attraverso l’ispirazione creativa.
“Una storia di storia di violenza domestica e del meccanismo psicologico che lega le vittime ai loro carnefici fino alla perdita di senso e di identità”. Sono alcune note che riguardano il suo ultimo romanzo edito da Perdisa con il titolo “Undicesimo comandamento”. Si tratta di temi molto delicati, come è giunta a questa trama?
“Volevo parlare di coloro che non si sentono voluti né scelti, ma capitati quasi per malasorte tra le braccia di chi si trova costretto ad accoglierli. Questo sentimento di rifiuto genera vergogna, senso di colpa per innata inadeguatezza, e conduce chi lo vive al voto d’espiazione, a un costante sacrificio di martire che accetta la frusta del carnefice, martire convinto che alla fine del calvario ci sarà l’abbraccio del Padre Eterno come premio alla sua dolorosa e costante devozione”.
Nel primo romanzo “360 gradi di rabbia” (Excelsior 1881) il tema era l’anoressia; si può dire che le sue protagoniste sono donne sotto assedio di una rabbia repressa?
“Sì, solo che nel caso di Vera, la rabbia emotiva si manifestava con le ossa scoperte e lo stomaco vuoto, mentre per Serena, è l’abbuffata di violenza a rivelare il grido rabbioso che le sta ingabbiato dentro. Serena è una bulimica del dolore”.
Si tratta in ogni caso di tematiche forti: ha avuto necessità di documentarsi o è ricorsa ad esperienze personali? Molto spesso nei primi romanzi gli autori lasciano alcuni spazio alle autobiografie non dichiarate…
“Il mio primo romanzo tratta di anoressia, una tematica che io conosco a fondo per averla vissuta e “indossata” per diversi anni, ma l’impianto narrativo non è privo di elementi d’invenzione. Undicesimo Comandamento racconta il rovescio della rabbia vissuta da Vera, quella parte che si lancia concretamente verso l’altro anziché esaurirsi dentro la realtà fisica del proprio corpo”.
Lei ha lavorato in teatro ed al cinema, perché ha scelto l’ennesima forma di espressione attraverso la narrativa?
“Con il teatro ho avuto un rapporto assai conflittuale ma in un certo modo anche salvifico, il cinema è stato soltanto un brevissimo e irrilevante incrocio, nonostante io lo ami moltissimo. Perché la scrittura? Perché soltanto la parola mi attrae al punto da vivere in apnea se dovessi stare senza”.
Scrivere e pubblicare sono due cose diverse, la seconda spesso è preclusa se non si accetta di contribuire alle spese chieste da alcune case editrici; vuol raccontare il rapporto che l’ha legata prima ad Excelsior 1881 e poi a Perdisa?
“In entrambi i casi si è creato un rapporto di estrema correttezza, dove il mio lavoro è stato puntualmente retribuito secondo i parametri di ciascuna casa editrice”.
Fra le sue attività c’è pure l’organizzazione di mostre d’arte e le pubbliche relazioni per una azienda di Milano; se scrivere è fatica, quando e come trova il tempo di farlo?
“Non mi occupo più di organizzare mostre, tuttavia il mio lavoro porta via molto spazio alla scrittura. Ma le urgenze necessarie trovano sempre posto di privilegio, anche dentro un tempo affollato”.
Il corso di scrittura creativa nel carcere di Opera a Milano: quale rapporto si instaura con gli allievi?
“In realtà, l’attività che svolgo all’interno di Opera è un lavoro comune di drammaturgia e teatro, condotto dal gruppo teatrale “ Opera Liquida”, composto da Ivana Trettel, regista, drammaturga e fondatrice del gruppo, Caterina Filice, costumista, scenografa e docente all’Accademia NABA di Milano, e in ultimo da me. Con Ivana Trettel, attiva da numerosi anni nel teatro carcere, lavoriamo affinchè i detenuti possano mettere in scena testi propri, riguadagnando, o almeno nel tentativo di riguadagnare, un’identità e un valore straccionati da scelte sbagliate e /o eventi contro”.
Mi permetto di riportare dal suo blog: “In fila per due, ci passano innanzi le occasioni perdute, scolarette in grembiule bianco, tutte a bacchettare noi altri, illusi maestri”. Lei quali ha perduto, di occasioni?
“Forse quella di accorgermi di me, quando sarebbe stato urgente farlo. Ma sto cercando di recuperare!”.
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