“Le immagini del dolore siriano come antidoto contro l’indifferenza”. Il racconto di Asmae Dachan

il 17/03/2014 - Redazione

Era il 15 marzo del 2011 quando, per le strade di Damasco, sull’onda emotiva dei tumulti dell’Africa settentrionale, si alzavano le voci contro il regime di Bashar al Assad. Quello stesso giorno nella città meridionale di Dara’a le forze di sicurezza di Assad arrestarono 14 bambini, colpevoli di aver scritto su un muro gli slogan della primavera araba rivolgendoli al regime di Damasco. Alcuni bambini furono restituiti alle famiglie con evidenti segni di torture; altri non hanno mai più fatto ritorno a casa. La protesta si è svolta in modo pacifico per i primi otto mesi ma la sanguinosa repressione ha spinto la popolazione civile ad armarsi; molti militari hanno disertato, rifiutando di sparare e uccidere la propria gente e andando a costituire l'esercito siriano libero, la prima opposizione armata contro il regime. Col tempo gli scontri e le fazioni si sono moltiplicati, ai danni della popolazione civile. Il tutto sullo sfondo di un complesso e intrigato equilibrio geopolitico internazionale. A tre anni di distanza in Siria oggi si contano oltre 130mila vittime accertate, 2 milioni e mezzo di profughi e oltre 9 milioni di sfollati interni. Tra tanta gente che ha scelto di andarsene dalla guerra, dalla povertà e dal terrore, c’è invece chi ha scelto di tornare nella terra delle sue origini. Si tratta di Asmae Dachan, nata in Italia da genitori siriani ed oggi giornalista, fondatrice ed animatrice del blog www.diariodisiria.wordpress.com che ogni giorno racconta, grazie ai contatti con citizen reporter di diverse città della Siria proprio quella guerra, quella povertà e quel terrore che in molti hanno scelto di ignorare e in altrettanti, forse, hanno scelto di tacere. Ma la strada del silenzio non è stata quella intrapresa da Asmae Dachan che, lo scorso agosto, è anche partita per la Siria per raccontare il dramma con i suoi stessi occhi. Ogni giorno, passo dopo passo, continua a raccontare in rete con dovizia di particolari, spiccato senso critico ed un contagioso coinvolgimento, le storie e il volto della tragedia in atto.

Cosa ti ha spinto verso questa strada?
«Essere vicina al mio popolo, ai giovani che nel 2011 hanno animato le strade e le piazze della Siria chiedendo libertà e diritti umani è stato per me spontaneo. Non ho dovuto scegliere da che parte stare, mi ci sono trovata in modo naturale e un coinvolgimento pieno a sostenere quel desiderio di cambiamento che ha spinto i siriani a rompere il regime di coprifuoco che dura da quasi mezzo secolo. Come giornalista ho scelto di dar voce proprio a quei giovani che hanno trovato il coraggio di pronunciare la parola libertà e che, con i loro telefonini e una connessione ad internet, hanno iniziato a documentare le violenze e a condividere in rete foto, video e notizie che altrimenti non avremmo mai avuto, visto che l'informazione in Siria è sotto il pieno controllo del regime e che ai giornalisti stranieri “non graditi” vengono negati i visti. Tramite la rete si sono create delle vere e proprie redazioni; io sono bilingue e questo è fondamentale per attingere dalle fonti originali e intervistare anche via Skype gente del posto. I contatti sono quotidiani e a tre anni dall'inizio delle violenze il legame, oltre che professionale, diventa anche affettivo; ogni volta che uno di questi reporter perde la vita è un lutto, un dolore immenso. Molti sono stati uccisi mentre in mano stringevano una fotocamera o una videocamera, come Trad Sharky, strappato alla vita lo scorso 20 febbraio; diceva sempre che con la sua handycam avrebbe voluto sconfiggere il regime di assad. Questi ragazzi sono straordinari; il loro unico desiderio è di non consegnare il dramma siriano all'oblio. Il loro lavoro è stato, sin dall'inizio, di grandissima importanza: oggi tutto questo materiale costituisce un patrimonio di documenti che servirà a incriminare assad e tutti coloro che si sono macchiati di crimini contro l'umanità. Col mio impegno cerco di far arrivare la loro voce in Italia; è un lavoro fatto dal basso, che si scontra spesso con quello dei grandi media, che ancora continuano ad attingere le notizie sulla Siria solo da fonti del regime o da media stranieri, senza mai sentire la voce della gente».

Sono conclusi in un nulla di fatto i negoziati di Ginevra. In questa guerra civile quali le colpe o le complicità degli organismi internazionali di pace?
«I colloqui di Ginevra sono stati una pagina nera nella storia della diplomazia internazionale: dopo tre anni di violenze, di fronte a oltre 130 mila morti accertati, di cui oltre 12 mila sono bambini al di sotto dei 16 anni, di fronte all'assedio che sta condannando ad una morte lenta migliaia di persone, ai bombardamenti e alle esecuzioni, la comunità internazionale non è stata capace di imporre né una no fly zone, ne l'apertura di corridoi umanitari, come chiedeva l'opposizione siriana già nel 2011. Far evacuare pochi civili da Homs e consegnare aiuti umanitari che bastano solo per pochi giorni non significa impegnarsi per porre fine al genocidio. Le scuse di Brahimy non servono a nulla: mi chiedo se avrebbe il coraggio di farle di fronte ad una madre che vede il figlio morire per la malnutrizione dovuta all'assedio o che lo stringe ormai esanime perché colpito da un ordigno. È doveroso impegnarsi sulla via negoziale e fermare la spirale di sangue, ma per farlo in modo reale e costruttivo non si può trattare con un regime che sta sterminando quello che dovrebbe essere il suo stesso popolo. Assad va consegnato al tribunale internazionale dell'Aia e processato per i suoi crimini e con lui tutti i suoi sostenitori armati, siano essi membri dell'esercito, miliziani di hezbollah, affiliati di al qaeda. Il regime continua a sentirsi legittimato dallo stallo dei potenti del mondo e questo rende in qualche modo tutti responsabili e complici del genocidio in Siria. Lo chiamo genocidio, non guerra civile, perché le violenze non sono iniziate con lo scontro di due parti opposte bensì con un governo che ha scatenato l'esercito contro i civili che chiedevano riforme e libertà. Purtroppo il prolungarsi delle violenze (inizia il quarto anno) e il moltiplicarsi delle fazioni ha ulteriormente aggravato e complicato la situazione».

Tra tante storie di dolore ma anche di riscossa qual è quella che più ti è rimasta impressa?
«In questi tre anni, seguendo giorno per giorno gli accadimenti, di vicende ne ho lette e raccontate molte, in un senso o nell'altro. Pensando alle storie di riscossa mi vengono in mente le immagini delle donne che ho incontrato in Siria e che, nelle tendopoli come nelle città bombardate, continuano ad insegnare amore, a cercare di mantenere e creare un clima di armonia, serenità, di “vita normale”. La loro forza d'animo è straordinaria e il loro coraggio esemplare. Fanno scudo con i propri corpi e prima ancora con le proprie anime per proteggere i figli dal dolore e dalle sofferenze in un contesto drammatico. Per quanto riguarda le storie di dolore, devo dire che le immagini dei bambini ridotti pelle e ossa a Yarmouk, ma anche quelle dell'esodo dei bambini e degli anziani dalla zona assediata di Homs sono state laceranti. Vi invito a guardarle; farà male, ma se ognuno di noi facesse suo questo dolore, avremmo già un buon antidoto contro l'indifferenza. Sta accadendo tutto ora... a solo tre ore di volo dall'Italia».

Toccare con mano ogni giorno la tragedia rischia di rendere immuni alla sofferenza anche chi la racconta?
«A volte vorrei che fosse così: si soffrirebbe di meno. È vero che un giornalista si attiene ai fatti ma quando si decide di raccontare un genocidio scegliendo, come punto di vista, quello di chi lo subisce, il dolore diventa parte del tuo impegno e del tuo lavoro quotidiano. C'è una regola non scritta per cui il giornalista, come il medico, non dovrebbe mai mostrare i propri sentimenti, tantomeno la commozione, di fronte alla persona che gli racconta i suoi mali. Quando lavori al pc è facile: nessuno ti vede, ti puoi alzare, piangere, pregare, prendere una boccata d'ossigeno e poi rimetterti all'opera. Ma quando guardi negli occhi le persone che ti raccontano di aver visto morire i propri figli, o giovani donne che sono state abusate o ancora bambini che hanno assistito all'esecuzione dei genitori... difficilmente resti impassibile. Col passare dei mesi, degli anni, non ricordi più quale di queste vicende ti abbia rubato il sonno per sempre».

Il secondo settennato di Assad termina a giugno e il presidente ha già fatto sapere di volersi candidare alla propria successione. Come reagirà il popolo siriano?
«Nelle strade di Damasco campeggiano gigantografie con le foto di Hafiz Al Assad (il dittatore padre) e di suo figlio Bashar; è quasi mezzo secolo che il partito Bath cerca di imporre il culto della persona, ma questo non rispecchia lo spirito del popolo siriano, tanto vocato all'arte, alle scienze, alla cultura, alla raffinatezza di pensiero. Non si tratta di un campagna elettorale ma di una vera e propria riaffermazione del potere che questa dinastia si è illegittimamente presa negli anni '70. Dove sono gli altri candidati se chiunque si dichiari oppositore viene perseguitato e ucciso e l'unica opposizione politica organizzata esistente è quella che si trova all'estero, frammentata e ancora debole? Scommettiamo che Assad vincerà, anche stavolta, con il 98,9 per cento dei consensi? Bisogna poi tener conto di un dato puramente numerico: oltre metà della popolazione siriana non potrà partecipare a queste elezioni farsa perché si trova ormai fuori dalla Siria, o è in una condizione di prigionia, o è sfollata, spesso senza più documenti. È davvero vergognoso, disumano, ingiusto; è come uccidere nuovamente le migliaia di persone che hanno perso la vita nella loro stessa patria, uccise da quello che dovrebbe essere il loro stesso padre».

Qual è la strada per la pace?
«È l'unica strada che vogliamo, è l'unica strada possibile, quella dove si fermano i bombardamenti, dove si ritira l'esercito dalle città, dove si fanno cessare le armi. Dopo tre anni di violenze e mezzo secolo di regime sarà certamente una strada in salita, che dovrà affrontare svariate difficoltà, ma i siriani ce la faranno. Siamo da millenni una terra dove convivono etnie e religioni diverse e troveremo il modo di recuperare quello spirito di convivenza, condivisione e unità che ci ha sempre contraddistinto e che è stato minato da tante atrocità. La premessa della pace deve essere la giustizia e la prima giustizia è quella che si deve impegnare per salvare vite umane, aprire corridoi umanitari, assicurare i criminali alla giustizia internazionale. C'è un'intera generazione che da tre anni non riceve nutrimento adeguato, cure mediche e istruzione, che è stata privata della sua stessa infanzia. Milioni di bambini traumatizzati dalle scene a cui hanno assistito e di cui sono stati vittime: è la generazione del presente e del futuro della Siria. È a loro che bisogna pensare».

Nel concreto, cosa si può fare per aiutare la Siria?
«Anzitutto parlarne, informandosi, smettendo di fingere che non stia accadendo nulla. Poi è indispensabile attivarsi nella solidarietà; la Siria che ha sempre dato, che ha sempre accolto popoli in transito e in fuga, oggi è una terra da cui si fugge. Oltre 10 milioni di persone ora dipendono dagli aiuti umanitari. Come italo-siriani abbiamo dato vita all'associazione Onsur – Campagna Mondiale di Sostegno al Popolo Siriano – che ha già realizzato, insieme ad Ossmei - Organizzazione siriana dei servizi medici e di emergenza in Italia - 9 missioni in Siria (la decima partirà il 15 marzo), consegnando direttamente in Siria 37 ambulanze e 5 container carichi di medicinali, latte in polvere, materiale sanitario e ludico-didattico, vestiario e scarpe invernali e distribuendo migliaia di pacchi alimentari. Ci tengo a sottolineare che il 90 per cento dei nostri sostenitori sono italiani: nonostante la crisi e le difficoltà attuali, la gente ci mette il cuore e dona con grande generosità e noi ce la mettiamo tutta, grazie alla collaborazione con associazioni locali, per portare gli aiuti in diverse zone della Siria».

Cristian Lamorte

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