Oggi ho incontrato virtualmente l’autore pisano Daniele Ramadan per parlare del suo ultimo romanzo, “Solo” (Mimesis, 2019), incentrato sulla vita di Cartesio. Il libro, un interessante lavoro di sintesi tra la filosofia e la narrativa, un modo per avvicinare la forma più alta di indagine conoscitiva del mondo con la piacevolezza del racconto, affronta il tema della solitudine di Cartesio e adombra l’ipotesi che sia stata proprio questa condizione a indurre il filosofo-matematico a teorizzare il concetto del "solipsismo della mente umana", pensiero che ancora oggi ci influenza e che ci spinge a leggere la realtà che ci circonda in funzione di noi stessi. Il libro di Ramadan è il terzo titolo della collana Vite Riflesse, un progetto editoriale che fa capo all'Università di Firenze nella figura di Roberta Lanfredini, professoressa di Filosofia teoretica e che mira a rintracciare nelle esperienze di vita vissuta l’innesco da cui potrebbe essersi sviluppato il pensiero di grandi filosofi e scienziati. A Daniele ho posto qualche domanda per approfondire la lettura del suo affascinante romanzo:
Daniele, perché hai scelto di narrare la vita di Cartesio?
Cartesio (al secolo René Descartes) costituisce sia il punto di partenza dei miei studi filosofici, sia un’ottima riflessione per la mia attività da scrittore più in generale. Cartesio vive agli albori dell’epoca moderna, eppure, molti temi fondamentali del nostro presente e del futuro prossimo trovano origine proprio nel suo pensiero. Egli ci lascia in eredità molte aporie che arrivano fino a oggi sotto forma di fratture. Io sono il mio pensiero o le sensazioni che provo? La realtà è davvero quella che vedo e che sento oppure si tratta di un infingimento? Dal famoso dubbio iperbolico alla separazione del soggetto dal mondo, Cartesio investe la nostra attualità: basti pensare ai rapporti sociali su internet, alle realtà virtuali, alle nuove tecnologie, persino alla politica chiamata a controllare le crescenti masse. I miei interessi filosofici principiano proprio da questi temi: la teoria della conoscenza, le società distopiche, il mezzo tecnologico. Eppure, questi aspetti hanno una portata così ampia da riversarsi perfino sulla narrativa. Per quanto concerne una riflessione più generale sulla letteratura, il discorso non riguarda soltanto me, bensì ogni scrittore contemporaneo chiamato a confrontarsi con queste nuove dinamiche del vivere. Come far entrare nei propri romanzi questi temi senza stravolgere l’immagine della letteratura? Un esempio pratico: come inserisco la tecnologia nella trama? Può sembrare più “poetico” stilare una lettera all’amata piuttosto che digitare 140 caratteri con lo smartphone, tuttavia ci si accorge subito che non si può fare a meno di inserire nel romanzo i crescenti mezzi tecnologici di cui disponiamo adesso, e con essi anche le loro conseguenze. Così facendo si realizza presto di star togliendo uno spazio fondamentale all’azione umana, e questo è un problema per il romanziere, in quanto la letteratura narra di uomini, di donne e dei loro rapporti. È la narrativa stessa a uscirne mutata. I gangli del nostro presente – uno di questi è appunto l’uso della tecnologia – rischiano di disumanizzare il romanzo e di piegarlo verso orizzonti a cui non sappiamo ancora guardare. Torna utile Cartesio, che ci introduce proprio al problema di dare un posto alla soggettività nel mondo e, mutuamente, alla mondanità nella coscienza. Conoscere Cartesio e l’epoca moderna significa disvelare l’arrière pensée del nostro presente. E del futuro.
Se è vero che narrare significa anche immedesimarsi nei propri personaggi, com’è stato vestire i panni del grande filosofo e matematico?
Ah, è stato senza dubbio emozionante! Ma anche impegnativo, dal momento che ho dovuto visionare una moltitudine di fonti. La vita di Cartesio è complessa e avventurosa. Il filosofo si trasforma davvero in un personaggio da romanzo, in un eroe – o meglio in un anti-eroe – letterario. Visse gli anni della giovinezza in un collegio di gesuiti soffrendo di una malattia che lo costringeva a rimanere a letto. In quel letto, la realtà del collegio, quella dei libri che leggeva, e quella del sogno, si intrecciavano costantemente facendo sorgere in lui le domande che poi lo avrebbero spinto all’avventura. Uscito dal collegio, infatti, seguì la scia della sanguinosa Guerra dei Trent’anni, in giro per l’Europa, in cerca di chissà quale verità poetica. Sul suo cammino incontrò personaggi esoterici, scienziati solitari, principesse inconsolabili. Ebbe sogni divinatori, fu padre di una figlia di cui si finse sempre lo zio, passeggiò per le strade di Amsterdam quando da queste passava la grandezza del mondo intero, vide persino gli automi, ovvero quelle macchine portentose che già nel 1600 si proponevano di ricreare l’essere umano. È un’avventura immensa, posso permettermi di fare un elenco e al contempo non svelare niente al lettore, rispettandolo. Il filo conduttore di tutte queste esperienze fu la continua ricerca di un’anacoresi solitaria, la quale, in maniera ineludibile, entrò a far parte della sua filosofia. Vestire i panni di Cartesio significa provare tutte queste emozioni e cercare di comprendere perché, il filosofo, le abbia fuggite costantemente.
Perché la filosofia è sempre più sentita come una disciplina troppo elevata e distante dalla contingenza della quotidianità?
Credo che per rispondere ci potrà venire in aiuto lo scenario prospettato nella celebre caverna di Platone, un’ottima metafora della vita umana in società. Per Platone, noi tutti viviamo in una caverna ma non ce ne rendiamo conto. Per la maggior parte degli uomini che la abitano, la caverna è data, essa costituisce la realtà. Ciò che accade al suo interno è la normalità per queste persone. Sulle pareti della caverna scorrono continuamente immagini fittizie, delle ombre proiettate e poco più. L’umanità allora sembra dividersi in due parti. La maggior parte è composta da coloro i quali considerano reali quelle immagini e quelle interazioni, le seguono pedissequamente, ne vengono distratti, sono incatenati a esse. Come non vedere in questa dinamica, per esempio, i mezzi di informazione di massa, dalla televisione a internet? O l’economia? O parte della politica? L’altra parte dell’umanità, la quale costituisce la minoranza e rimane ben nascosta, è invece intenta a proiettare le ombre sulle pareti per ingannare gli altri. E il filosofo? Il filosofo appartiene a una terza categoria di uomini e donne che si sottraggono a questa dinamica poiché mettono continuamente in discussione la realtà della caverna. Il pensiero del filosofo, e nondimeno il suo percorso di vita, lo conducono a trovare la strada per uscire dalla caverna. Una volta fuori, all’aria aperta, si può vedere finalmente qual è la realtà autentica. Eppure, solo chi è vero filosofo si prende la responsabilità di questa scoperta decidendo di tornare all’interno della caverna per avvertire gli altri, per mostrare loro le contraddizioni del presente. Ma come possono quegli uomini dar credito alle parole del filosofo? Quelli che credono alle ombre rimangono incatenati a esse, quelli che proiettano le immagini hanno tutto l’interesse che non si esca mai dalla spelonca. Accade così che il filosofo viene canzonato e ciò che dice è stimato come bizzarro, lontano dalla realtà della caverna, astratto. Ebbene, con la nostra collana di libri cerchiamo proprio di porre una lente di ingrandimento sulle straordinarie vite di questi filosofi che hanno cercato di appropinquarsi fuori dalla caverna. L’astrattismo e la lontananza di cui viene additato ingiustamente il filosofo mi fanno venire in mente anche Kant, il quale diceva che non potrebbe esistere la pratica se non ci fosse una teoria a monte, che noi la conosciamo oppure no. Mi concedo anche io una metafora allora: avere molte competenze pratiche senza prendere in considerazione la riflessione filosofica, è come saper guidare un’automobile senza sapere dove si stia andando né perché.
Il tema della solitudine ricorre all’interno di tutto il romanzo: ritieni che la lettura della vita di Cartesio possa in qualche modo venire in soccorso di chi, soprattutto in un periodo come questo in cui siamo isolati in casa per il Coronavirus, soffre e si sente solo? Potrebbe funzionare come un “antidoto omeopatico” contro la solitudine?
Sì, senz’altro, la solitudine si cura conoscendo la sua natura. Prima di noi, lo stesso Cartesio è rimasto prigioniero della solitudine. Cos’è il “solipsismo” eponimo infatti? Mettendo in dubbio la realtà, Cartesio giunge alla famosa conclusione: “penso, dunque esisto”. Significa che se anche ogni cosa intorno a me fosse un’illusione decettiva, avrei comunque una certezza, ovvero la mia mente che pensa, o se preferiamo il mio “io”. Il solipsismo è l’impossibilità di estendere la medesima certezza all’esistenza della mente dell’altro. Non abbiamo accesso ai contenuti della mente dell’altro. Chi ci garantisce che l’altro veda il mondo dello stesso colore del quale lo vediamo noi? Chi ci garantisce di star vivendo nello stesso mondo? Quando ci si chiude in solitudine come in questi giorni a causa del virus, il solipsismo si esacerba. Cercare di non rimanere dentro i muri eretti dalla propria mente diventa più complesso perché la solitudine si estende fino alle pareti della propria casa. Tuttavia, dobbiamo fare in modo che questo oggi non accada affinché la quarantena non mini le interazioni sociali umane una volta sventata la minaccia del virus e, a fortiori, affinché si continui a leggere il mondo in maniera critica, come testé abbiamo detto nella domanda precedente. Una soluzione per non cedere al solipsismo può essere proprio quella di conoscere la vita di Cartesio e cercare a nostra volta di mettere in dubbio la sua filosofia, come Cartesio mise in dubbio il mondo del suo tempo. Con questi auguri, mando un caro saluto a te e a tutti i lettori.
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