X: ordine di grandezza temporale, espresso in numeri romani, di molte sagre alimentari. Chi possiede molte primavere, forse, le considera ancora un fenomeno recente perché le ha viste nascere. Ma ormai possono appunto vantare decenni di vita e complessivamente, dall’abbacchio alla zucca, occupano i fine settimana di ogni stagione e località molto locali di tutte le regioni. “Sagra nazionale” è quasi un ossimoro: tradito peraltro a Gorgonzola dalla celebrazione del formaggio omonimo.
“Vantare decenni” non è solo un modo di dire: è anche, anzi soprattutto, una sorta di lapsus, di senso di colpa. Un modo per apparire più autorevoli di quanto non ci si senta davvero: come capita, a rischio di gaffe, a chi affronta la scalata sociale. Da qui, analogamente, l’insistenza fino all’ostentazione su importanti parole/slogan valutate decisive per meglio accreditarsi tra politica e cultura: territorio, tradizione, tipicità, autenticità, identità, memoria e via rivendicando. Non diversamente da quanto riscontrabile nei musei di cultura contadina, nell’ormai incanutito folk revival musicale, in varie riproposizioni dell’artigianato. Perché attorno ai favolosi ’60 avemmo, come stranoto, una frattura di non facile composizione. È da allora che aspetti diversi usciti dalla pratica quotidiana primaria vi sono rientrati come citazioni consapevoli e celebranti. Si “degusta” il cibo di una volta, nelle sagre, con il contorno dell’”esibizione” di altre performatività tradizionali.
Non stupisce, così stando le cose, che siano moltissimi quelli che organizzano e frequentano le sagre, abbastanza altri che le criticano, pochissimi quanti provano a studiarle. I critici sembrano aver gioco facile. Poco ci vuole, tra l’altro, a dimostrar per tabulas l’improbabilità di molte origini mitizzate: “l’ invenzione delle tradizioni” ha trovato largo spazio nel senso comune medio alto. Essendo poi le sagre espressione di socialità effettivamente popolare è nel connesso linguaggio che si realizzano e manifestano, inevitabilmente risultando ad alcuni segnate dal marchio del kitsch: il gusto, come diceva quel tale, è il disgusto per i gusti degli altri.
Sui muri sono largamente “pubblicati” gli annunci colorati delle sagre: quanto poche frequentate le pagine dei saggi socio-antropologici che le hanno scelte come oggetti di studio. Dimostrando, in cerchia ristretta di colleghi, che le sagre, come il folklore, sono “ottime da pensare”. Corrispondono a faccende in realtà serie e importanti. Come minimo individuano un tentativo di risposta locale a domande epocali che anche altrove, e più in alto, non sembrano essere state meglio soddisfatte.
Piccolo problema: chi fa le sagre probabilmente sa che vengono criticate ma ignora che qualcuno le sta difendendo. Scontata la conseguente morale, ma solo se resta nelle intenzioni come accadde nei ‘70: occorrerebbe accostare tavoli e banchi, cattedre e bancarelle. X dovrebbe anche richiamare il suo valore di incognita, da risolvere nell’equazione della contemporaneità. Nessuno al momento sembra esserci riuscito. Almeno proviamoci, più insieme, anche a partire dal senso del costoleccio.
Paolo De Simonis, antropologo
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