Attualmente insegna Lingua e Cultura Ebraica presso l’Università degli Studi di Milano ed ebraico biblico presso il Centro Culturale Protestante della stessa città. Sara Ferrari ha anche recentemente tradotto e curato i seguenti volumi: Forte come la morte è l’amore. Tremila anni di poesia d’amore ebraica (Salomone Belforte Editore, 2007); Yehuda Amichai, Nel Giardino pubblico (A Orientel, 2008); Tali Latowicki, Camera Oscura (Salolome Belforte Editore, 2008); La notte tace. La shoah nella poesia ebraica (Salomone Belforte Editore, 2010).
Mettere insieme tremila anni di poesia d’amore ebraica non è impresa da poco. Quale sentimento e quale sollecitazione culturale può avere mosso questo lavoro?
“Questo lavoro nasce prima di tutto dalla mia personale esperienza di contatto con la lingua e la letteratura ebraica. Da studentessa, i primi testi che ho letto in ebraico sono stati, infatti, delle poesie d’amore, alcune delle quali incluse nell’antologia. Queste poesie hanno cambiato il corso della mia vita, determinando scelte importanti, come quella di proseguire nello studio dell’ebraico. Perciò mi è sembrato naturale voler condividere la mia emozione con gli altri. Nello stesso tempo avevo il desiderio di contribuire a colmare, in una certa misura, un vuoto presente nel panorama editoriale italiano, ancora molto povero di traduzioni di poesia ebraica, offrendo un libro che includesse alcuni degli autori più interessanti del passato e del presente”.
Si può dire che esista un filo conduttore che percorre tre millenni di storia e di letteratura? E giusto nella poesia d’amore, quale elemento costante della cultura ebraica vi si può ravvisare?
“Due sono, a mio parere, gli elementi costanti che percorrono questi tre millenni: la lingua ebraica e la tradizione biblica. Questi due riferimenti persistono in ogni momento della storia ebraica, anche durante i lunghi secoli in cui l’ebraico aveva cessato di essere una lingua parlata e gli ebrei erano dispersi tra Oriente e Occidente. In mancanza di uno Stato indipendente in cui identificarsi, la lingua ebraica e la tradizione biblica sono state a lungo il vero Stato degli ebrei. Data la problematicità della storia ebraica, non si tratta di un fatto scontato. Anche oggi che uno Stato indipendente esiste, questi due elementi non sono messi in discussione, sebbene il tempo abbia mutato il modo in cui essi sono trattati. Per quanto riguarda nello specifico la poesia d’amore, credo sia molto interessante vedere come episodi o brani biblici servano spesso da strumento interpretativo della personale esperienza del poeta. La Bibbia è stata ed è tuttora una materia viva e attuale”.
Misurarsi, come traduttrice, con una poesia inarrivabile come quella del “Cantico dei cantici”, non imbarazza? Non fa sentire comunque inadeguati?
“Sì, eccome. Ci sono testi che danno le vertigini tanto appare impensabile l’idea di poterne tradurre la bellezza in una lingua diversa da quella in cui sono stati scritti. E, senza alcun dubbio, il “Cantico dei cantici” è tra questi. Nello stesso tempo però, quando si ama molto un libro, è difficile resistere alla tentazione di “entrarvi” completamente, di farlo proprio in qualche modo, pur nel totale rispetto della sua sostanza. Tradurre in fondo è un po’ anche questo: un atto d’amore. E l’amore richiede prima di tutto un’umiltà assoluta. Così ho cercato di affrontare questa esperienza: con umiltà e con amore. Ed è stato davvero emozionante”.
Se volessimo attribuire al suo libro un significato nell’oggi, anche in considerazione delle tormentate vicende del popolo ebraico, quale è il messaggio che se ne ricava?
“Più che un messaggio vero e proprio, credo che da queste poesie emerga innanzitutto l’importanza del riconoscersi in una tradizione che è sì religiosa, ma anche e soprattutto linguistica e culturale. Per quanto concerne invece aspetti più legati al mondo contemporaneo, penso che le poesie di numerosi autori israeliani, quali Yehuda Amichai, Moshe Dor e Shimon Adaf, per citarne alcuni, offrano ai lettori italiani una testimonianza incisiva di cosa significhi vivere la quotidianità dei sentimenti in una terra lacerata dai conflitti come quella d’Israele”.
Simona Trevisi
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