La poesia come chiave che apre i cancelli del nostro vissuto. Intervista a Domenico Guarino

Firenze il 16/07/2024 - di Serena Bedini
È uscita in libreria in questi giorni la nuova raccolta di poesie di Domenico Guarino “D’amore e guerra” (Edizioni Effigi). Versi profondi, musicali e intensi in cui l’autore partendo da un’analisi disincantata della contemporaneità offre al lettore una via di fuga dal mondo corrotto in cui viviamo: l’amore. Abbiamo incontrato Domenico e gli abbiamo posto qualche domanda.
 
In Ouverture denunci l’indifferenza della società contemporanea che attraverso la richiesta ipocrita e superficiale di ordine non si cura dei mali che incancreniscono il nostro mondo e lo rendono sempre meno degno di essere vissuto. Considerato il titolo della tua raccolta, D’amore e guerra, sarebbe stato più logico aspettarsi un’apertura dedicata ai conflitti che dilaniano il mondo in questo momento, piuttosto che un riferimento così deciso e mirato alla realtà italiana, prima che internazionale. Inoltre l’indifferenza scaturisce dall’animo corrotto da immagini di guerra, ma di fatto è solo una conseguenza della violenza bellica: perché dunque questo tipo di incipit?
In realtà le guerre di cui parlo non riguardano solo la categoria dei conflitti geopolitici. La guerra, come l’amore, sono due metafore, due abiti umani che hanno molteplici e multiformi significati.  In particolare le guerre che noi combattiamo sono numerose e diverse, ma hanno in fondo la stessa radice: la mancanza di riconoscimento dell’altro da sé come parte di sé, ovvero esattamente la scissione che l’amore sana con il suo movimento. Overture parla della nostra società, in cui il desiderio di ordine riguarda per ciascuno solo le cose che contraddicono la propria comodità esistenziale. Che spesso è fatta di sotterfugi se non di crimini. Quindi è un ordine che non ha nulla a che fare con un principio etico superiore, ma riguarda il proprio, spesso misero, tornaconto. È il motivo per cui le grandi evasioni fiscali non destano lo stesso scandalo del portafoglio rubato sull’autobus.
 
Alcune delle tue poesie “di guerra” sono costruite con un uso mirato dei suoni scelti. Ti faccio qualche esempio: 26 di Aprile comincia con l’anafora “come se nulla fosse” che insieme alle parole che la seguono traduce la sensazione di un sussurro insistente e continuo, ripetuto; in Sicari vigliacchi mi sembra che il concetto dello sdegno e del disprezzo che vuoi esprimere si riverberi nella scelta di parole con gruppi consonantici come -sv- o -st- o -sp-: si trova almeno un gruppo di questo tipo ogni due versi; in Verso nuovi approdi  si trova, fin dal titolo, un uso frequente della “v”, es.: “Voraci come orci | disseccati, non sappiamo| Vivemmo, sapidi | Di onnivore credenze.”, quasi a voler indurre la sensazione di scivolare sull’acqua verso effettivamente nuovi approdi. Nel processo creativo, quanto questo tipo di scelte sono spontanee, quanto indotte da effettiva ricerca del suono, quanto subentrano in fase di revisione?
Io credo in una poesia sorgiva. Che sgorghi cioè dal limitare della nostra coscienza, quando ci affacciamo sul baratro della nostra esistenza inconscia, che è fatta di sensazioni e di impressioni molto più che di ragioni. La ragione è in fondo solo la punta dell'iceberg, quella con cui tentiamo, spesso in maniera ipocrita e fallace, di ordinare il caos delle nostre emozioni e delle innumerevoli sensazioni che viviamo in ogni attimo della nostra esistenza, e che ci parlano molto più di quello che riusciamo a cogliere e ad ammansire tramite lo strumento razionale. Attraverso la poesia parla il nostro vissuto vero e più profondo, che si scrive in forme autonome ma coerenti. La mia poesia dà forma intellegibile a quello che rimarrebbe indicibile ed inespresso, attraverso il mezzo del linguaggio che si forma im-mediatamente. Quindi, per rispondere in maniera razionale alla domanda, direi che vengono fuori già così. E che le forme retoriche attraverso cui si esprimono sono connaturate al significato intrinseco e al significante con cui si palesano. Le parole, il ritmo, le pause, i pieni e i vuoti, sono già scritti prima che io li scriva. Sono il modo in cui il mio vissuto mi parla di sé, sapendo spesso ciò che io non so o non so dire. E lo fa attraverso cose che ho vissuto, e che mi abitano nel profondo probabilmente da prima che nascessi. Come appunto la letteratura, la musica, la cultura classica, la formazione religiosa, l’attenzione spirituale. Da questo si sviluppa la forma dell’espressione. 
 
La guerra a cui fai riferimento sembra essere più un travaglio interiore, una difficoltà ad accettare un mondo corrotto e la ribellione intima che ne consegue e che ingenera frustrazione, sofferenza, dolore. Sei d’accordo su questo? L’unico rimedio a questo tipo di guerra è un atto rivoluzionario, ossia l’amore, un amore viscerale che trova nella sua insensatezza la logica per sopravvivere, come tu dici nella bellissima introduzione che precede la raccolta. Tuttavia in essa scrivi: “L’amore come metafora e come vissuto reale, fatto di scommesse senza calcoli e di vittorie che non richiedono vittime.” (p. 5). Laddove c’è una vittoria, verrebbe da dire che c’è stata una battaglia, e quindi il modo per ribellarsi alla guerra che viviamo interiormente è una nuova guerra sia pure amorosa?
Perché le vittorie dovrebbero comportare delle vittime? In realtà l’unica vittoria vera è quella che nega la vittimizzazione, è lo scarto in avanti che tende alla sublimazione della contesa. Nell’amore l’oggetto amato conta quanto il soggetto amante. La vittoria è vittoria di entrambi. Ma si può avere solo quando sia disinteressato. Se ti aspetti qualcosa in cambio non è amore, è un ‘investimento’. L’amore chiede abnegazione e offerta di sé. Altrimenti è solo un investimento. L’amore non ci ‘abbatte’, ci eleva. Ci chiede dedizione ma non ci rende schiavi, anzi ci libera in una dimensione ulteriore. Che ci fa paura perché confondiamo l’amore con il possesso: due cose tendenzialmente opposte.
 
Nelle varie poesie d’amore celebri il tuo sentimento attraverso il correlativo oggettivo, ad esempio in Alle nostre 4 settimane descrivi il sapore che ha per te attraverso percezioni che rimandano a situazioni vissute da te e dalla donna che ami, cibi, odori o sentori di momenti trascorsi. Tra le varie immagini che utilizzi, riporto alcuni versi che nella loro semplicità sono molto evocativi: “Sa di menta, e di noccioli | Di terra piovuta, di fichi, di oleandri | Di stagioni erranti”. È un componimento dotato di notevole musicalità, di ritmo, di trasporto e ha il potere di trasmettere in maniera inequivocabile il senso delle tue parole perché quelle sono connesse a sapori noti a tutti. Condividere qualcosa di così intimo non è un’intromissione fortissima nella propria riservatezza? Non è tradire qualcosa che di per sé è solo di due persone donandolo agli altri indiscriminatamente?
Nel momento stesso in cui vengono ‘pubblicate’, ovvero rese pubbliche, condivise dunque, le cose scritte diventano patrimonio di tutti e quindi assumono forma di metafora universale. Che ciascuno può e deve leggere secondo le proprie soggettività. La poesia è una chiave che apre i cancelli del nostro vissuto e ci chiama a confrontarci con quello che c’è dentro. Io scrivo 'attraverso' di me, portando un significato universale per mezzo di significanti universalmente riconoscibili e riconosciuti.  Le frasi che citi sono un esempio lampante: tutti possono capirle perché tutti le hanno vissute, chiunque può farle proprie. La soggettività è solo lo specchio dell'oggettività che si manifesta nell’individualità dello scrivente. o se preferisci, del poeta. In questo senso la poesia è essenzialmente un fatto sacrale, sempre. Perché presuppone e determina un altrove dove lo scrivente, il leggente, e le loro umanità si incontrano. Amandosi.
 
In un mondo in cui nessuno ha tempo per leggere, scrivere è un atto da sognatori perché comporta la necessita che qualcuno lasci per qualche ora la propria mente in balia delle parole di qualcun altro. In questo tipo di realtà, poi scrivere poesie è di per sé un atto rivoluzionario perché presuppone che oltre a trovare il tempo per leggerle se ne trovi anche per rileggerle, rifletterci, sussurrarle, leggerle ad alta voce, apprezzandone la musicalità e indagandone metafore, stile, ecc. Chi scrive poesie oggi e soprattutto chi le legge?
La poesia è l'unico atto letterario veramente rivoluzionario.  Chiede attenzione in un mondo che vive di superficialità, pretende che ci si dia tempo in un mondo che va sempre di fretta, seleziona un pubblico in un mondo che ci vuole tutti uguali. Ma, soprattutto, è l’atto più smaccatamente sovversivo, perché la poesia di fatto non ha mercato. Si scrive perché se ne sente il bisogno e si legge per quello stesso bisogno. È il luogo in cui nasce la rivoluzione. Una rivoluzione bella e generosa, perché non ti inchioda alla pagina, ma ti lascia libero di gestirla. Ti sussurra, e ti scava dentro. I poeti scrivono poesie. Gli esseri speciali le leggono. Loro e solo loro hanno il compito di interpretare il presente e costruire il futuro.




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Serena Bedini

È nata a Firenze nel 1978; si è laureata con 110/110 e lode in Filologia Moderna nel 2005 presso l’Università degli Studi di Firenze. È scrittrice, giornalista, docente. Maggiori informazioni su di lei sono reperibili su www.serenabedini.it.   Vai alla scheda autore >

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