“La cultura d’élite non ha futuro in tv”. Parla Toni Capuozzo, giornalista e conduttore di Terra!

il 05/12/2011 - Redazione

Jugoslavia, Somalia, Medio Oriente, Afghanistan. Toni Capuozzo da inviato Mediaset prima, del settimanale del Tg5 “Terra!” poi ha raccontato la guerra a milioni di telespettatori catturando le storie, le voci, i ricordi di migliaia di persone dalla vita interrotta e, spesso distrutta in nome di ideali politici, religiosi ed economici. Un inviato di guerra che dopo anni di carriera ha ancora la voglia e la capacità di emozionarsi, di condividere le storie delle persone che ha incontrato sulla sua strada, in nome di quel giornalismo “non ideologico ma appassionato, forse poco obiettivo perché scegliere di inquadrare un volto insanguinato piuttosto che una piazza è già una scelta, un influenzare il giudizio di chi a casa guarda il tuo servizio”. A portare Toni Capuozzo a Siena dove sienalibri.it lo ha incontrato sono stati gli impegni lavorativi, un servizio sulla mostra di Milo Manara “Le stanze del desiderio” allestita al Santa Maria della Scala. Una puntata speciale di “Terra!” che andrà in onda su Canale 5 nelle prossime settimane con immagini della mostra antologica e un’intervista al maestro del fumetto. Una puntata culturale realizzata da un esperto di guerra che nella vita è da sempre molto affascinato da tutto ciò che è sinonimo di cultura, intesa sia come sublime mezzo per affermare se stessi (come pensava nella sua gioventù da sessantottino), sia come sinonimo di “reality show” della tv di oggi.

Nel 2009 hai allestito uno spettacolo per beneficienza per raccogliere fondi da destinare alle persone meno fortunate di Herat e sei stato anche direttore artistico del Festival di Reportage di Atri. Da uomo di cultura come pensi che si possa definire quella che si vede oggi in tv?
“E’ molto comune l’idea che la cultura debba essere per forza elitaria anche se è più diffusa rispetto ai secoli scorsi. Tende a parlare un linguaggio che è per pochi adepti, che è un ammiccamento a chi ha fatto i tuoi stessi studi, ha il tuo stesso modo di intendere le parole. Si pensa che la cultura debba essere per forza una cosa estremamente seria e boriosa. Io credo che con il passare del tempo sia diventata in molti aspetti un elemento ampiamente diffuso e inevitabilmente, “volgare”, nel senso di vulgus, legata al popolo, nell’accezione più neutra di questo termine. A suo modo oggi anche il Grande Fratello è cultura. Personalmente non penso sia un tipo di cultura che promuove, educa e nobilita, ma credo che i giovani che lo guardano in qualche modo l’abbiano sostituito malamente con quello che in tempi passati era stare insieme intorno ad una chitarra, o leggere un romanzo di formazione. E’ un modo di rispondere a delle domande che tutti gli uomini si pongono “chi sono?, Cosa faccio? Come mi relaziono con gli altri? Si tratta solo di vivere consapevolmente il nostro tempo. Non considero la tv come uno strumento di barbarie ma uno specchio fedele di un periodo storico in cui la cultura si è massificata perdendo in profondità e in qualità. So perfettamente che se scrivo un pezzo sul Corriere della Sera lo leggerà al massimo mezzo milione di persone. Un programma in tv, male che vada, viene seguito da un milione di persone. Altra questione è la critica. E’ certo che la cultura non si può e non si deve subire, bisogna avere capacità di giudizio e valutazione. Se decido di leggere un libro lo scelgo fra tanti, se decido di accendere la tv, la soglia critica si abbassa. Se non pensiamo alla cultura come a qualcosa per adepti, allora la nostra cultura oggi è fatta anche di tv”.

Il rischio è che soprattutto i giovani confondano tutta la cultura con la tv?
“Questo è inevitabile se chi continua a occuparsi ostinatamente di cultura in quanto tale porta il marchio di una visione elitaria per cui diffida totalmente della cultura popolare. Tutti ricordiamo il maestro Alberto Manzi che insegnò l’italiano a intere generazioni. Oggi, invece, si pensa che i quiz non possano insegnare niente. Io li reputo nozionismo tradotto in gioco. Ci sono stati momenti nella storia della tv in cui è stato dimostrato che anche la cultura alta può essere fatta non relegandola a canali minori e nelle ore piccole. Penso al “Racconto del Vajont” di Marco Paolini seguito in prima serata da milioni di persone. In generale se uno pensa di fare cultura rivolgendosi solo ad un pubblico di nicchia allora la tv è lo strumento più inadatto che possa esserci”.

Come si spiega che nell’era della tv digitale e dell’offerta di canali che si è moltiplicata non ne esista nemmeno uno interamente dedicato ai libri?
“In passato la tv ha sperimentato trasmissioni dedicate ai libri che hanno avuto anche un discreto successo. Molto dipende dalla bravura di chi conduce. Spesso ho comprato libri perché affascinato da chi li presentava. Se uno è noioso a presentare un libro molto bello, è difficile che il volume possa interessare il grande pubblico. Maurizio Costanzo, per esempio, è sempre stato un formidabile promotore di libri che con il suo modo di fare sornione e indagatore, incuriosisce i telespettatori invogliandoli a leggere volumi obiettivamente molto belli ma anche altri piuttosto anonimi. Spesso chi si occupa di cultura conserva tracce di comportamento elitario che può andar bene in un ambiente accademico ma di sicuro non in tv”.

La cultura conserva un carattere elitario, a volte inavvicinabile. Siamo noi telespettatori dalla mente un po’ atrofizzata da ore e ore passate davanti alla tv o la cultura ha perso un po’ del suo reale appeal?

“Non bisogna essere troppo ingiusti con i propri tempi. Alla fine degli anni Settanta ricordo che spopolò una canzone di Vasco Rossi che parlava di una ragazza timida e imbarazzata a cui “piace studiare e non te ne devi vergognare”. Per decenni essere bravi e leggere più degli altri non faceva “figo”. Oggi, per mille ragioni, siamo più superficiali, nervosi, tendiamo a non approfondire eppure abbiamo a disposizione strumenti formidabili come i motori di ricerca, in grado di mettere a nostra disposizione migliaia di risultati in un secondo. Quello in cui voglio credere è che la ricerca, l’approfondimento, l’andare oltre le apparenze non siano caratteristiche che non ci appartengono più. C’è solo un’eccessiva settorializzazione del sapere”.

Parla da inguaribile ottimista per il futuro della cultura?
“Assolutamente sì ma dobbiamo intenderci. Penso che molte cose esistenti siano destinate ad avere un altro ruolo. Per esempio per secoli il cavallo è stato il principale motore della storia, chi li possedeva vinceva le guerre e viaggiava più veloce. Oggi il cavallo non è scomparso, anzi rende felici ancora molte persone. Allo stesso modo potrà succedere che arriverà un giorno in cui la carta stampata e i libri non saranno più il principale veicolo di conoscenza. Alla mia età fatico a leggere un libro su ipad, adoro sentire il profumo della carta. Non per questo non ho un ipad. Dobbiamo essere consapevoli che il mondo cambia. Non dico che bisogna accettare tutto in modo passivo ma le novità sono un modo per capire il nostro tempo. E capirlo è anche un modo per non subirlo”.

Susanna Danisi

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