"L'Olocausto non va sottovalutato, potrebbe ripetersi". Intervista a Piero Valensin, scampato alla deportazione

il 04/11/2013 - Redazione

Il 6 novembre ricorre l’anniversario della deportazione degli ebrei senesi in direzione dei campi di concentramento nazisti, una delle pagine più nere della storia della nostra città. Piero Valensin ha assistito in prima persona agli eventi di quell’autunno e, nonostante fosse molto giovane all’epoca, le immagini sono ancora molto nitide nella sua memoria.

“Io ero piccolo negli anni delle leggi razziali - racconta Valensin - la mia famiglia non frequentava in maniera assidua la comunità ebraica. Fino al ‘42 non ho risentito in maniera particolare di queste leggi, da quel momento però sono cominciate le preoccupazioni e allora mio padre, per evitare che potessi dire qualcosa di sbagliato, ci trasferì in campagna”.

La situazione era più tranquilla lì?
“In campagna non ho avuto nessun problema, giocavo coi bambini delle fattorie vicine e non ho mai ricevuto alcuna offesa; però sentivo che stava succedendo qualcosa, gli adulti si riunivano e io spiavo queste sedute. Da lì ho appreso che ci stavano cercando per portarci in Germania. Ero molto impaurito”.
Quand'è cominciata la fuga vera e propria?
“Siamo scappati da questa casa in campagna ai primi del ‘43, in fretta e furia, venne ad avvisarci la mattina la moglie di Achille Sclavo, per cui mio padre lavorava. La sera precedente a una festa aveva sentito dire che cominciavano i sequestri degli ebrei. Di quei momenti ho dei flash, ma uno particolarmente struggente: mio nonno era molto malato e non poteva venire con noi, mi ricordo che mi abbracciava piangendo; sento ancora i suoi baffi umidi sul mio viso”.
Da lì dove vi siete rifugiati?
“Mia madre, io e mio fratello Luciano siamo stati trasferiti al monastero di Costafabbri. Eravamo dentro a una cella in cui non potevamo parlare perché altrimenti avremmo corso il rischio di farci sentire; potevamo uscire un po’ solo di sera. Lì siamo restati dai primi di ottobre del ‘43 fino al passaggio del fronte, circa dieci mesi. Alcuni dei ricordi di questo periodo sono anche abbastanza buffi, come quando mio fratello scappò dalla cella e finì nella camerata delle suore, finendo per farsi rincorrere da una di loro armata di scopa. Altri invece sono meno allegri: mio padre viveva nascosto dentro all'Istituto Sclavo e veniva da noi di notte per pochi minuti, non mi scorderò mai gli abbracci con mia madre mentre entrambi piangevano”.
Dopo il passaggio del fronte cos'è successo?
“Mio padre venne a prenderci e ci riunimmo tutti in una casa di contadini a Montalbuccio, salvo mio nonno che nel frattempo purtroppo era morto. Decidemmo di restare lì per un po’ perché la nostra casa era stata occupata da un gerarca nazista ed era in condizioni disastrose; in seguito, però, siamo dovuti scappare, arrivarono i soldati marocchini in cerca di donne. Di questo momento ho un altro ricordo indelebile, due soldati che giravano per casa e un altro che puntava una pistola alla testa di mio padre mentre io, attaccato alla sua gamba, tremavo. Per fortuna uno di loro vide l'accendino d'oro di mio padre, che glielo regalò, riuscendo così a scamparla. In seguito siamo subito scappati e abbiamo fatto bene perché la sera stessa tornarono e uccisero un contadino”.
E’ stato complicato riabituarsi di nuovo alla vita normale in seguito?
"E’ stato molto difficile, mia madre non ce l'ha fatta mai. Rimase con una sorta di mania di persecuzione: tutte le sere in cui uscivamo o usciva mio padre lei restava in casa a pregare temendo che ci facessero qualcosa. Anche io ne ho risentito, mi mettevano a letto alle nove e mezzo e restavo lì a piangere finché non tornava mio padre, non riuscivo ad addormentarmi se non era tornato. Nessuno se n’è mai accorto perché facevo finta di dormire ma è durato per tanto tempo. Questa insicurezza contraddistingue un po' tutti gli ebrei che conosco”.
Ha ricordi di come reagì il resto della comunità?
“Verso la fine del Kippur è prevista la benedizione della famiglia, a quella mio padre ci teneva tantissimo; il capo famiglia avvolge tutti sotto il talled e recita la benedizione. Riguardo a questo ho un ricordo che non mi ha mai abbandonato: tra le persone portate ad Auschwitz c’erano la moglie e la figlia di un certo Nissim, che si salvò perché al momento del rastrellamento era fuori casa. Ricordo quest’uomo, solo, che col talled abbracciava l’aria, perché non aveva più nessuno, recitando la benedizione”.
Secondo lei esiste il rischio di perdere la memoria di quello che è successo?
“Più che altro il rischio è la sottovalutazione, si guarda alla Shoah come a una cosa che è successa a causa di un folle e che non si può ripetere. Io questo lo nego; quello che fa impressione nel leggere i documenti di quel periodo è l’assoluta tranquillità e buona fede dei tedeschi. I lager nazisti erano scientifici, tutto assolutamente programmato in funzione del profitto; il campo di concentramento è, in un certo senso, la sublimazione dell'idea del capitalismo: qual è l’industria che funziona meglio? Quella che non paga gli operai, che li fa mangiare il minimo e che quando muoiono è subito in grado di sostituirli. E’ un esempio che se non capito può perpetuarsi”.

Francesco Anichini

Torna Indietro

NEWS

Libri

x

Continuando la navigazione o chiudendo questa finestra, accetti l'utilizzo dei cookies.

Questo sito o gli strumenti terzi qui utilizzati utilizzano cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Chiudendo questo banner o proseguendo la navigazione, acconsenti all’uso dei cookie.

Accetto Cookie Policy
X
x