Il libro di
Concetto Vecchio "Io vi accuso", dedicato a
Giacomo Matteotti, di cui quest'anno ricorre il centenario dall'assassinio, sarà protagonista in un dibattito organizzato a Firenze il 25 ottobre. Il dibattito si svolge al Teatro Cantiere Florida, in via Pisana, alla presenza dell'autore. A moderare l'evento sarà il presidente della Fondazione Circolo Rosselli
Valdo Spini. La Fondazione Rosselli organizza l'evento insieme all’associazione Murmuris. “Si calcola – ha ricordato Spini – che siano circa 80 i libri e i contributi di vario genere che sono stati editi per quest’anno centenario dell’uccisione di Giacomo Matteotti. E’ una testimonianza dell’attualità, non solo del suo sacrificio ma anche del suo messaggio politico. Il libro di Concetto Vecchio peraltro si segnala per la sua originalità. Giornalista e scrittore, non ha voluto scrivere un libro di storia e nemmeno una biografia; si è messo in cammino sulle tracce di Matteotti, cominciando da Fratta Polesine, il luogo in cui è nato e sepolto e ha cercato di mettersi in rapporto con le fasi della sua esperienza non solo politica ma anche umana. Senza trascurare un’intervista anche a Franco Nero, indimenticabile interprete di Matteotti nel bellissimo film di Florestano Vancini 'Il delitto Matteotti'. Il libro termina con un viaggio all’interno delle vicende della famiglia Matteotti dopo l’assassinio di Giacomo e al triste incontro con la vicenda della spia che il regime aveva messo addosso alla vedova Velia Matteotti e ai suoi figli rimasti orfani in tenerissima età”. “Quindi – ha concluso Spini – un viaggio dell’anima che stimola ciascuno di noi a fare altrettanto e a rapportarsi fino in fondo con la vicenda del segretario del Partito socialista unitario Giacomo Matteotti”.
Un eroe sempre più solo e consegnato al sacrificio della storia: tale è il Giacomo Matteotti che appare in questo libro di Concetto Vecchio, giornalista e quirinalista de
la Repubblica. Un eroe che capovolge, da 100 anni, il luogo comune che, se non in vita, almeno da morto quell’eroe avrà fama e onori. Perché la storia non è esattamente quel prevedibile cammino di un certo hegelismo superficiale. Anche dopo il suo rapimento e l’accoltellamento da parte della banda di Dumini, una serie di cortocircuiti, dovuti non solo alle divisioni della sinistra, ma anche a un sostanziale isolamento di Matteotti, portarono a stendere, allora come oggi, una coltre di imbarazzato e imbarazzante silenzio. La vedova, Velia Titta, dovette affrontare una serie impressionante di «invasioni» di persone sedicenti amiche, e che in realtà erano spie di Mussolini, di sorveglianze sotto casa che investirono anche i figli, impedendo loro una infanzia e una gioventù serena e spensierata.
Ed è davvero singolare notare come «il gioco delle parti» – Pirandello, se è per questo, chiederà l’iscrizione al partito fascista dopo l’uccisione di Matteotti – sarà rovesciato in questa tragedia: l’eroe che presenta infinite volte nei suoi interventi in Parlamento i conti della corruzione e della violenza del costituendo regime, con precisi documenti e dati alla mano, sarà sempre più solo, confortato da pochi compagni del Psu – il partito che era nato dopo l’espulsione dal Psi dei riformisti da parte dei massimalisti, molti dei quali furono, con lo stesso Mussolini, fondatori del fascismo – e attaccato duramente dalle altre compagini della sinistra e dal partito comunista di Gramsci.
«Quell’uomo dopo quel discorso non dovrebbe più circolare»: sarà una delle frasi, ricordate da Vecchio, che Mussolini griderà a uno dei suoi dopo l’intervento che costerà la vita al leader socialista. E, ricorda ancora l’A., alle pacche sulle spalle e ai complimenti di alcuni coraggiosi compagni di partito Matteotti risponderà: «Grazie, ma adesso preparatemi l’elogio funebre» (p. 176). Infatti, l’A. a un certo punto non può trattenersi e deve chiedersi: «Come diavolo ha fatto a resistere, Matteotti? Perché non è emigrato all’estero, come tanti antifascisti minacciati?» (p. 128).
Se ci fosse un esempio di eroe politico da proporre all’attenzione pubblica, Matteotti sarebbe uno di questi. Eppure le lapidi e le commemorazioni sono stati oggetto di vera e propria rimozione da parte di alcuni governi, anche dopo la liberazione dal regime fascista.
Il libro di Vecchio ripercorre – documenti alla mano, e con interviste ai familiari e agli storici – le tappe del calvario di Matteotti, non solo a livello di cronaca e di documentazione politica, ma anche ricordando l’amore, le preoccupazioni e il dolore della moglie, i suoi sforzi e la sua determinazione per vedere il corpo del marito dopo la scoperta del cadavere alla Quartarella, sulla Flaminia, tra Sacrofano e Riano, e le «visite» – in realtà, vere e proprie indagini pagate da Mussolini – di sedicenti nuovi amici; senza contare i numerosi agenti che sorvegliavano l’appartamento di Matteotti e che fermavano le persone che entravano nel palazzo, scortandole fino alla porta di destinazione, per evitare che andassero a casa della vedova. Velia si staglia in questo racconto come una persona che, pur nelle forti diversità – lei era profondamente credente e aveva pensato, prima dell’incontro con Giacomo, di farsi suora; lui era ateo –, riesce a stargli vicino anche con lettere, in cui emerge un amore capace di andare oltre ogni distanza.
Il merito dell’A. è soprattutto quello di essere riuscito a ripercorrere l’attesa di una fine, ormai prevista e accettata, da parte di un leader politico che, oltretutto, sarebbe potuto fuggire all’estero, ma anche l’umano dolore di una famiglia rimasta senza più un padre e destinata a infiniti problemi di ordine economico e psicologico. Basti pensare che a Velia venne proibito di portare il lutto e che il figlio Giancarlo veniva scortato e riaccompagnato a casa prima e dopo aver frequentato il liceo a Roma. La «Storia», con la maiuscola, quella che in ogni caso ha contribuito a fare Matteotti, diviene tutt’uno con la vita, quella reale, di una famiglia destinata alla sofferenza e perfino all’esclusione dalla vita reale. Una storia che le divisioni politiche hanno contribuito a occultare, perché ha presentato, anche a sinistra, il salato conto di un esempio di come sarebbe potuta andare diversamente se molti avessero imitato il coraggio, la precisione nelle denunce e la forza di un uomo che sapeva qual era il prezzo che doveva pagare per la sua fedeltà a un’idea. Uno dei pochi a sfidare coraggiosamente la responsabilità del rapimento e del delitto fu il cattolico Igino Giordani.
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