In ricordo di Luigi Arista, un cultore della parola

Siena il 23/10/2019 - di Luigi Oliveto
Un anno fa moriva Luigi Arista, appassionato di letteratura, cultore della parola che si fa poesia, puntiglioso analista della forma letteraria. Si era laureato in lettere classiche e moderne discutendo una tesi su “Dante e le ragioni dei ritorni a capo in poesia”. Tema che, negli anni, aveva ulteriormente approfondito, ingaggiando vere e proprie contese su come si dovessero leggere correttamente i versi.
Arista aveva, infatti, un’attitudine all’analisi teorica e critica del testo e gli piaceva farne esercizio, pur consapevole di quanto – parole sue – “la letteratura sia ormai considerata fra le cose più futili di cui parlare”. Lamentava che, oggi, la scrittura gioca facile, si è appiattita sugli stereotipi imposti dagli editor, manca di “brivido estetico”, di letterarietà. Non certo aiutata dalla critica, dove i ‘discorsi’ – sempre a suo dire – hanno soppiantato le teorie organiche.
 
Queste le ragioni per cui ritenne di dar vita a un periodico online: “Emèresi. Rivista di scrivere, di leggere, di commentare, di ragionare la letteratura”. Nell’editoriale del primo numero (ottobre 2015) argomentò le ragioni dell’impresa dicendo che, per un letterato, esprimersi nel caos del web è un po’ come porsi in una sorta di “isolamento militante”. E a mo’ di viatico citò due grandi ‘isolati’: Leopardi, quando, già nel suo ‘secolo sciocco’, denunciava come «oggi, che il comporre è di tutti, e che la cosa più difficile è trovare uno che non sia autore, è divenuto un flagello»; e poi Baudelaire, colui che aveva coniato il termine ‘modernité’ per dire di una vita fattasi fugace e vacua, e, dunque, dell’urgenza che l’arte cogliesse quell’esperienza del vivere. Così “Emèresi” prese a fluttuare in Rete, in quel mare magnum di prevalenti chiacchiere e sciocchezze dove la parola ha raggiunto il più infimo livello di appiattimento e spreco. Ma forse proprio questo piaceva a Luigi, navigare con parole sensate in mezzo all’insensatezza. Per un’istanza etica, prima ancora che culturale (ammesso che una priorità tra le due possa darsi).
 
Arista era tra coloro che credono nella forza salvifica delle parole, quelle che spiegano la vita, definiscono le cose e i sentimenti, raccontano il mondo, i mutamenti della storia. Anche nei suoi scritti di narrativa, non meno nei testi poetici, si avverte una siffatta tensione. Basti leggere il romanzo “Via Lurida” (2009). Una storia in cui l’imbarbarimento della società trova allegoria nella metamorfosi di una borgata ai margini della metropoli, laddove il cemento ha coperto la campagna, degradato un vivere civile e solidale. E si legga ancora il libro che, sotto il titolo “Fugge l’origine” (2013), raccoglie la sua produzione in versi tra il 1967 e il 2006. Qui è la parola poetica a cogliere i tremori della vicenda umana, quella personale e quella collettiva, fino a dichiarare: “[] e disperatamente vivo per tornare / a un mio principio primo, a un genitore / a chi mi ha messo questa nostalgia / non so di cosa, in cuore.”
 
Di questo e d’altro mi era capitato di discorrere con Luigi. Nelle ultime email si era parlato soprattutto “d’altro”, del tempo e delle età, dei rapporti interpersonali che con il pieno della maturità tendono ad affievolirsi, “quasi che – mi scriveva – assecondassero lo spegnersi delle luci di casa nella sera, la sera della casa esistenziale che l’anima avverte.” Capitò, così, di confidarci la mestizia, il limio del rimpianto che ogni crepuscolo induce. Non pensavamo, però, che la notte potesse giungere tanto in fretta.
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Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004),... Vai alla scheda autore >

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