“Il vuoto dietro. Esercizi di anticriminologia”. Questo il titolo dell’ultimo libro edito da Rubbettino dello psicologo e criminologo Silvio Ciappi, un libro per riflettere sugli efferati crimini di oggi e sulla società che li produce. Ciappi vive a Poggibonsi, è professore universitario e ha lavorato spesso anche all'estero in contesti complessi e rischiosi come la Colombia, il Brasile e la Nigeria. Esegue perizie psicologiche in materia civile e penale ed è autore di varie pubblicazioni, sempre inerenti il proprio ambito professionale. Tra i suoi libri ricordiamo: “La nuova punitività. Gestione dei conflitti e governo dell'insicurezza”, Rubbettino, 2007; Orrori di provincia, Mondadori, Milano, 2006; “Sociologia e criminalità. Prospettive teoriche e strumenti di ricerca”, Franco Angeli, 1999; “Serial killer. Metodi di identificazione e procedure investigative”, Franco Angeli, 1998. Ha scritto anche un noir ambientato in terra senese: “Il missionario”, Robin, Roma, 2009. E’ in corso di stampa per Mauro Pagliai Editore “Anime Nude. Finzioni e interpretazioni intorno a dieci grandi poeti del Novecento”, scritto insieme a Francesco Ricci.
“Il vuoto dietro. Esercizi di anticriminologia”, un libro estremamente attuale se guardiamo la cronaca nera italiana e le drammatiche vicende accadute recentemente in Norvegia. Una domanda quindi sorge spontanea: dove sta andando la nostra società?
“Questa è una domanda molto difficile. Una cosa di cui sono convinto è che oggi il male, parafrasando Hanna Arendt, è superficiale, banale, non ha neppure più le motivazioni ideali (della pazzia conclamata, del bisogno, della gelosia) di un tempo. Se osserviamo i tanti gesti atroci in Italia, ad esempio quelli di Novi Ligure, Cogne, Perugia ed ancora quelli di Erba e Garlasco, possiamo notare un aumento dei delitti in ambito provinciale, nei piccoli centri o in nazioni che fino all’altro ieri credevamo immuni dai fenomeni di violenza. Cerchiamo un po’ di capirne il perché. Da quasi venti anni io faccio questo mestiere. Vedo persone con problemi, talvolta molto seri, per poi ricavarne una impressione che altri trasformeranno in una valutazione legale. La mia “clientela” negli ultimi anni si è andata però trasformando. Se fino a ieri era facile codificarla, in quanto erano persone diverse da noi, oggi questo criterio è venuto meno. La distanza tra noi e loro si è abbreviata, accorciata enormemente. I miei clienti ci stanno sempre di più assomigliando. E la cosa è grave, almeno dal mio punto di vista. Le statistiche criminali ci dicono che i reati violenti sono in diminuzione, ma alla diminuzione quantitativa fa da contrappeso un salto di qualità. Prendiamo l’omicidio: ci sono meno persone che uccidono ma quelli che lo fanno, lo fanno secondo modalità e motivi che i giudici e l’opinione pubblica spesso finiscono per trovare irrazionali, incongruenti. Ho cominciato allora a riflettere su questo cambiamento antropologico e mi sono accorto che i miei clienti non sono cambiati di punto in bianco: anche la società nella quale viviamo è cambiata. Sono cambiati valori, atteggiamenti, credenze, paure, aspirazioni. E il crimine, come affermava Norberto Bobbio, non è un qualcosa di disgiunto dalla società che lo esprime. Si muove con essa, la segue a ruota. I criminali non sono marziani venuti da un altro mondo”.
Crede che questo suo libro possa servire a comprendere, almeno un po’, le dinamiche degenerative che si verificano anche nei contesti più sereni, quali la famiglia e la coppia, e quindi a capire cos’è che può “scattare” nella psiche umana in certi momenti?
“Sì, credo di sì. E’ una visione a tutto tondo sul mondo del crimine e su quella società che fa da palcoscenico a questi quotidiani piccoli inferni. Mi auguro anche che chi decide su questi casi debba o possa prendere in considerazione la complessità dell’oggi, non riducibile a formule sociologiche o a interpretazioni meccanicistiche. Anche la clinica deve ripensarsi, credo. La nozione di sintomo è insidiosa, prende in considerazione solo l’aspetto superficiale del malessere di un ragazzo”.
Riguardo a molti efferati crimini si sente spesso parlare di infermità mentale. Non crede che incolpare troppo spesso la pazzia sia una sorta di negazione dell’esistenza del male e della malvagità?
“Esattamente, è spesso così. Eccetto alcuni casi nei quali vi è una patologia mentale conclamata, spesso i delitti sono commessi da persone che fino al giorno prima erano considerate “normali”, dei bravi ragazzi, senza aver sofferto le classiche discriminazioni di carattere sociale, economico, psicologico. Figli poveri di famiglie ricche. I crimini di oggi sono “trans-classisti”, attraversano tutte le classi sociali. Spesso la malattia mentale fa parte di un rituale classificatorio che non coglie la complessità del soggetto in questione. Certo esistono, in alcuni casi, vere e proprie patologie. Ma in altri la scelta deviante è chiara, razionale, liberamente adottata. Non dovremmo allora sforzarci di capire che i sintomi di un adolescente deviante non sono altro che il suo Dasein, il suo essere-nel-mondo? Così facendo potremmo cercare di lavorare all’interno della complessità di quel ragazzo. Tutti i bravi educatori sanno che c’è bisogno di entrare in quel piccolo mondo fortificato che è il ragazzo, l’adolescente, il minore, il giovane adulto; e che spesso è inutile cercare di classificarlo. Spesso il bravo operatore sa che il vento che tira all’interno di quel mondo viene da fuori: è aria che respiriamo tutti”.
Nel suo libro viene affrontato anche il problema del così detto disagio giovanile. La nostra società tende a trasmettere modelli unicamente vincenti e dominanti, quando invece è da valorizzare anche la capacità di accettare i nostri limiti e i nostri fallimenti. Consiglierebbe dunque il suo libro anche ad un pubblico adolescente, oppure la forza dei media e della “società vissuta” è troppo forte per essere messa in discussione da un eventuale giovane lettore?
“Certo che la lettura va raccomandata ai ragazzi. Fa parte dell’universo della cultura, della bellezza delle cose, e come diceva Dostoevskij: “solo la bellezza ci salverà”. C’è bisogno di uscire dal triangolo perverso “stili di consumo-media-ragazzo”. Occorre liberarsi dalla tirannia del voler essere qualcuno a tutti i costi: logica che spesso un certo tipo di media impone. Nelle nostre società del dominio è un imperativo categorico mostrarsi forte, sapersi affermare e dominare sugli altri. E’ questo ciò che insegna la scuola, il mondo del lavoro, la pubblicità ingannevole dei media. L’importante è vincere e sulla corporatura del vincitore si incollano etiche, ragion di stato, modelli di comportamento. Spesso succede che in questa etica ed estetica del dominio l’essere all’altezza costi all’individuo quote inconsce di paura. Innanzitutto qui gioca un ruolo importante la paura di scivolare un giorno nel novero dei perdenti. Spesso invece accade che ciò che è davvero importante è il saper confrontarsi con le proprie fragilità, arrivare a capire che anche la dimensione del vincente può essere una condizione grave quanto quella del perdente. Il trionfo recide ogni legame con le proprie fragilità e complessità. In questo l’etica del trionfo e del dominio è distruttiva”.
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