“Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta”… sì, ma non del tutto. Mentre è partito il conto alla rovescia che ci porta alla data che dovrebbe celebrare il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, gran parte del paese sembra ovattata, quasi come se dimenticasse cosa significa il 17 marzo. Complice anche un’agenda politica che parla di tutt’altro, le persone, il popolo, gli italiani sembrano non ricordare le vicende dei loro progenitori sacrificati per farci vivere oggi in una nazione unita. Siamo quindi andati ad indagare sulle motivazioni di questa strana ottica e lo abbiamo fatto con il professor Nicola Labanca, docente di Storia Contemporanea presso l’Università di Siena.
Centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, un tema d’attualità ma fino a un certo punto. Com’è sentita oggi questa ricorrenza? - “Oggi in Italia, in generale, mi pare che l’Unità sia sentita in maniera molto diversa. C’è un ristretto gruppo persone che sanno di cosa stiamo parlando e un largo gruppo di persone che non sanno minimamente di cosa si tratti: non sanno né della data dell’unificazione, 1861, né tantomeno del processo di unificazione, ovvero i centocinquant’anni. Cioè, le celebrazioni di cui si fa un gran parlare non dovrebbero riguardare solo il momento del 1861, bensì dovrebbero abbracciare tutti e centocinquanta anni in cui questo paese è stato unito. Ed ovviamente, sull’uno e sull’altro fronte c’è qualcuno che sa e molti che non sanno. Ovviamente a tutto ciò c’è una spiegazione: soprattutto negli ultimi venti anni, alcuni orientamenti culturali e politici hanno avuto poca tolleranza verso l’unità d’Italia. Anzi hanno prefigurato ipotesi secessioniste o localiste. Inoltre, per un altro verso, l’Unità d’Italia oggi, al tempo della globalizzazione, ha meno senso, rispetto ovviamente a centocinquanta anni fa, rispetto cioè all’età dei nazionalismi. Ma ha anche meno senso rispetto al 1945, rispetto cioè alla guerra di liberazione nazionale combattuta per scacciare una forza occupante straniera. Con la globalizzazione è necessariamente cambiato il valore dello stato nazionale. Ma ciò non significa che scompaia. Anzi, oggi potremo avere un senso ed un’identità nazionale che non sia per forza prevaricatrice di altre identità e altri sentimenti. Mi sto riferendo ad un sentimento cosmopolita che ci fa sentire tutti cittadini dello stesso mondo, a sentimenti sovrannazionali e europei, a sentimenti di piccole patrie locali come per esempio la Toscana, Siena o la contrada. Quindi il sentimento nazionale che nell’800 doveva essere prevaricatore di tutte queste altre identità, oggi invece potrebbe stare in equilibrio con esse. Tutti questi cambiamenti richiederebbero un Governo, uno Stato, una politica in grado di rischiarare le idee ai cittadini: ma ci sono? Ci sono volontà culturali e politiche nelle forze di governo che spingano in questa direzione? In tal senso, davvero il 2011 è lontano anni luce non solo dal 1911 ma anche dallo stesso 1061”.
Quanto l’Italia, oggi, può dirsi veramente unita? - “Purtroppo oggi assistiamo ad un orientamento politico di Governo e ad orientamenti culturali che nemmeno vogliono festeggiare il centocinquantesimo anniversario dell’Unità. La soluzione trovata, non senza lavorazioni politiche, è addirittura quella di festeggiare l’Unità a scapito della giornata delle Forze armate (penso allo scambio 17 marzo/4 novembre). Ne consegue chiaramente che i cittadini siano disorientati. Se ci fosse un Governo o un orientamento culturale più unitario in linea con le ultime due presidenze della Repubblica, Ciampi e Napolitano, i quali hanno sempre sottolineato l’importanza dell’Unità e dell’identità nazionale (sempre in equilibrio con l’essere parte dell’Ue e dell’Onu), tutto sicuramente sarebbe più chiaro. oggi invece si seguono localismi e secessionismi o all’opposto anche ipernazionalismi, che ovviamente inquietano o anche solo fanno sorridere al giorno d’oggi)”.
Il 17 marzo sarà festa. Adesso è ufficiale ma ampio è stato il dibattito in merito sia in ambito politico che in termini di opinione pubblica. Quale è il suo parere a riguardo? - “Il 17 marzo in quanto tale non è “una data naturale”. È una data scelta: ricorda la proclamazione del Regno d’Italia. Ma in realtà, prima di proclamare il regno e quindi il Re, il parlamento finalmente nazionale si era già riunito. Quindi in teoria, come espressione dell’unificazione della nazione italiana e dei suoi popoli, sarebbe stato possibile scegliere anche una data diversa (febbraio 1861-2011). Cioè noi adesso siamo focalizzati sul 17 marzo, ma in realtà questa decisione comporta già dentro di sé una scelta. Noi veniamo spinti a festeggiare lo Stato, l’istituzione, il vertice, il regno. Mentre, se fosse stato scelto di celebrare in febbraio, avremo potuto festeggiare la riunione del parlamento italiano, l’unione della Nazione, e quindi tutto avrebbe avuto un valore più popolare. In astratto si sarebbe potuto scegliere anche una data garibaldina. Sta di fatto che però poi, alla fine, si è scelto il 17 marzo. Comunque sia, poiché i festeggiamenti si fanno una volta ogni cinquant’anni, 1911, 1961 e 2011, il solo fatto di non volerla festeggiare adeguatamente dimostra nuovamente il peso di quelle tendenze culturali e politiche di cui parlavamo prima che vogliono, per ragioni diverse, non festeggiare l’Unità d’Italia. E il non volerla festeggiare significa auspicare la divisione dell’Italia, non c’è via di mezzo”.
Quale è l’episodio o l’aneddoto dell’epoca risorgimentale a cui è maggiormente legato o che ricorda in maniera particolare? - “Per uno storico è difficile estrapolare una sola data, un solo episodio all’interno di un processo – quella della costruzione della nazione – che è stato molto lungo. Per non dire poi, se vuole spostare l’attenzione dall’Unificazione all’Unità, dal marzo 1861 al centocinquantennio 1861-2011. Difficile scegliere una cosa al di sopra delle altre. Anche perché, insisto, non dovremo scegliere un fatto legato all’anno 1861. Noi dovremo scegliere un episodio che si collochi tra il 1861 e il 2011, cioè un momento da inserire durante tutto il processo di unificazione del paese. Perché nel 1861 si è unito lo stato ma, come recitava il celebre motto d’azegliano “Fatta l’Italia, si devono fare gli italiani”. Allora, se devo scegliere un momento in tutto questo percorso unitario, non necessariamente legato all’anno 1861 o al Risorgimento, ma che invece rappresenti la costruzione di un’Italia moderna, democratica e unitaria, allora io scelgo il 25 aprile 1945 perché è il momento in cui, per la prima volta, l’Italia si dota di una democrazia. Durante l’Italia liberale (1861-1922) votavano non solo soltanto i cittadini maschi ma solo una piccola parte di essi. Sempre crescente, dal 2% nel 1861 al 20% nel 1919. In ogni caso ci stiamo sempre riferendo ad una piccola parte della Nazione. Il fascismo non prevedeva libertà di voto e meno che mai le donne votavano. Dal ’45 in poi votano tutti e tutte, in totale democrazia. Secondo me quindi, il 1945 è un anno fortemente simbolico che rappresenta un’Italia unita in senso nazionale. Gli italiani venivano da una guerra di liberazione contro forze occupanti straniere, e uomini e donne insieme, lo ripeto, per la prima volta, aprirono una prospettiva politica veramente democratica”.
Cosa ha significato l’unificazione per l’Italia del tempo? - “Non bisogna valutare con gli occhi di oggi quello che l’unificazione significò nel 1861. Perché oggi molti valori e sentimenti di allora non possono più rivivere. Basti pensare al fatto di volere un re, oggi pensiero totalmente inaccettabile nella nostra democrazia. Per quel tempo l’unificazione fu invece molto importante. Tanti piccoli regni si riunirono in un unico grande stato, portando l’Italia ad una dimensione tale da contare fra gli altri grandi paesi europei. Fu la prima volta che un’Italia poté avere una dimensione europea. Inoltre l’unificazione significò la fine di dinastie regionali autoritarie e talora reazionarie. Fu quindi un importante passaggio in avanti. Per i moderati e i democratici del 1861 i Savoia di allora sembrarono ed erano una dinastia più moderna ed aperta rispetto ai Borbone, ai Lorena o agli Asburgici nel lombardo-veneto. Inoltre vi era l’aspirazione di far rappresentare tutto il popolo, il popolo borghese. E quel piccolo dato del 2% che citavo prima già era un importantissimo passo in avanti. Perché era un avanzamento rispetto ai decenni della divisione, della Restaurazione, e decenni in cui erano le dinastie a governare e non il popolo, non la borghesia”.
Quanto la cultura, e la letteratura in particolare, hanno influito sul processo di unificazione? - “Gli intellettuali hanno sempre un’importanza fondamentale nei processi del nazionalismo e di costruzione della nazione perché forniscono e rielaborano idee che si diffondono in larghi pubblici. I letterati hanno avuto una grande importanza, un ruolo fondamentale nel creare la nazione, anche a livello linguistico, ad esempio accettando di convergere sul toscano, tra fiorentino e senese, come lingua nazionale. Ed anche solo per questo accordo, i letterati hanno contribuito molto al processo di unificazione nazionale”.
Cosa invece può fare la cultura attuale per animare un sentimento patriottico? - “Oggi non è necessario un sentimento patriottico come quello del 1861. Il sentimento nazionale odierno ha caratteri del tutto diversi rispetto a quello permeato di militarismo e maschilismo di allora. Oggi molti caratteri del sentimento nazionale del 1861 sarebbero inaccettabili. Allora la propria patria doveva superare le altre. Oggi invece in quanto italiani ed europei, ogni patria deve cooperare con le altre. Il sentimento patriottardo non va rianimato perché quello del 1861 ha oggi poco spazio. Va casomai ripreso a condizione di accoglierlo in un senso più aggiornato di coesistenza con identità plurime e multinazionali, ma anche locali e regionali, soprattutto europee e tendenzialmente cosmopolite. In Italia oggi non abbiamo bisogno di un vecchio sentimento patriottico, bensì di una valorizzazione di molte identità (da quellla nazionale a quella locale a quella europea) senza prevaricazioni”.
Ed infine, cosa può fare la cultura per rischiare le ragioni per cui 150 anni fa i nostri progenitori decisero di unirsi in unico regno? - “La cultura deve fare quello che non fanno oggi il Governo e molte istituzioni dello Stato, che non volendo celebrare l’Unificazione impediscono di pensare al 1861 e ai 150 anni successivi. Non creerà un nuovo sentimento patriottico, che peraltro ai tempi della globalizzazione probabilmente non servirebbe molto. Ma farà invece capire quali erano, cosa significava il nazionalismo del 1861, quale valore aveva allora rispetto ai suoi tempi, e quali valori di allora possono avere un’utilità oggi. Perché non celebrare l’Unità significa voler dividere un paese di 60 milioni di persone (forse si vuole ritornare a piccole patrie di 5-10 milioni?). Questo sì che sarebbe un andare indietro, non avanti. È proprio di fronte a questi orientamenti, culturali e politici, che l’Unità, oggi come allora, mantiene inalterato tutto il suo valore”.
Andrea Frullanti
SOTTO TORCHIO
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ULTIMO LIBRO LETTO - Alberto Banti “Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al Fascismo”
LIBRO DA CONSIGLIARE AI LETTORI - Paul Ginsborg “Salviamo l’Italia”
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