“Il San Niccolò perderà la sua storia”. La denuncia della docente universitaria Francesca Vannozzi

il 18/10/2010 - Redazione

La follia legata ad un passato che tanto racconta di Siena e della sua storia. Ricordi e momenti di vita quotidiana di uomini, donne e bambini che si mescolano indissolubilmente con la storia di un luogo. E’ il destino che lega la città del Palio con il suo ospedale psichiatrico il San Niccolò oggi al centro di un’ampia discussione per il suo recupero e la sua valorizzazione. Tra le voci che in città chiedono maggior impegno quella di Francesca Vannozzi, docente di Storia della Medicina all’Università di Siena.

Quale è la realtà odierna del San Niccolò?
“Il pericolo per l’ex ospedale psichiatrico è che tra un po’ non si saprà più cosa ospitava. E invece si parla di una parte di storia di Siena straordinaria, poco nota e anche rimossa su una zona che oggi rischia molto. Il problema del nostro manicomio è che non ha un unico proprietario. Così quando è stato chiuso nel 1999 non è mai partito un progetto unico di recupero e manutenzione perché ognuno ha pensato solo ai propri interessi. La richiesta è che, invece, almeno due immobili, la farmacia e il Conolly, il reparto dei clamorosi che sta crollando, dalla valenza storica e architettonica unica vengano preservati per diventare un centro di documentazione che dia spazio all’immenso patrimonio di cartelle cliniche che da dieci anni sono conservate in locali provvisori insieme a fotografie, cimeli, tesi, pubblicazioni”
Quale è il valore del San Niccolò per Siena?
“Si tratta di uno dei manicomi più grandi d’Italia, che a metà Ottocento ha avuto come direttore Carlo Livi, un uomo che ha cambiato la politica gestionale del manicomio e il concetto di recupero perché sosteneva che la follia non era un qualcosa di ineluttabile ma una malattia che si può curare e recuperare. Livi ha introdotto il principio del recupero del soggetto malato attraverso il lavoro, che veniva assegnato in base a quello che il malato faceva prima di entrare in manicomio. Molti, per esempio, erano contadini e quindi serviva una zona agricola, poi c’era la via degli artigiani, la lavanderia dove lavoravano le donne più robuste, la colonia femminile industriale dove le malate tessevano i camici dei medici, le camicie di forza, le lenzuola. A poco a poco, il San Niccolò è diventato un villaggio perché doveva avere tutti questi servizi oltre poi , rispondere all’evoluzione della psichiatria che ha portato a diagnosi differenziate per i pazienti.”.
Una storia,quella del San Niccolò, oggi custodita da un archivio molto prezioso.
“Un archivio che tutela la memoria di oltre duemila pazienti oltre a quella di personale medico e infermieristico che va studiato anche perché fortunatamente è rimasto intatto. C’è un’enormità di cartelle cliniche che ripercorrono la storia della malattia mentale e fanno comprendere come sono cambiate le diagnosi, le ricerche antropologiche, di sociologia, di medicina, di statistica”.
1818 - 2010. Come cambia il modo di considerare i matti?
“Prima dell’apertura del manicomio la follia non era considerata una malattia ma una situazione disdicevole da emarginare. Le cose cambiano con la psichiatria francese che considera la follia come una malattia da curare con la contenzione. Le cose cambiano con Livi e il suo innovativo approccio al lavoro. Nel 1978 con la legge Basaglia, che determina non la chiusura ma la fine dei nuovi ricoveri, pochi malati abbandonano l’ospedale perché spesso non hanno nessuno che li aspetti all’esterno e migliora il loro modo di essere perché possono uscire e fare passeggiate. Negli anni 50-80 c’è il periodo più brutto perché il manicomio si svuota del suo ruolo. Nasce la clinica psichiatrica universitaria e il San Niccolò diventa un cronicario. Oggi è più difficile identificare il matto perché con le terapie si riesce a risolvere o controllare la malattia e rendere una vita altrimenti difficile conciliabile con la società moderna razzista, chiusa, che segue i valori della bellezza e del successo. Esiste, tuttavia, una categoria di malati psichici che restano con il bollino dell’infamia. E che come tali vivono tutte le difficoltà del diverso . Ed essere un diverso oggi vuol dire essere penalizzato”.

Susanna Danisi

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