“Il mondo cantautorale italiano cresce con o senza Sanremo", parla Dario Brunori

il 24/02/2014 - Redazione

C’è un mondo musicale, più vasto della percezione reale, che diffonde le note nel sottofondo di quella realtà che, fatta di Sanremo e talent show, predilige l’immagine e lo spettacolo ai contenuti e alle canzoni. In quel sottofondo basta scavare per imbattersi in cantautori che hanno fatto della propria vocazione un piacere e un mestiere in grado di coinvolgere il pubblico senza televoti, vestiti, scalinate e effetti speciali. In grado di fare musica senza fare rumore. In questo limbo vi è una nuova leva cantautorale italiana che nulla ha da invidiare a chi ha calcato fino a sabato sera il palco dell’Ariston. Tra questi gli Zen Circus, Le luci della centrale elettrica, Levante, Dente e Brunori Sas solo per citarne alcuni. E proprio quest’ultimo, Dario Brunori, sarà a Siena giovedì invitato dall’Università che lo stesso cantautore ha frequentato proprio negli anni della sua maturazione musicale. E così, ricordando le doppie in affitto, le feste, gli studi, i lavoretti occasionali, l’impiego alla Siena Parcheggi nel post laurea, i garage e i locali dove suonava, a meno di un mese dall’uscita del suo terzo album, Dario Brunori incontrerà amici di un tempo e studenti di oggi.

Artisti e gruppi che non hanno visibilità a Sanremo, quale contributo possono dare al mondo cantautorale italiano?
«In questo preciso momento storico mi sembra che si stia venendo a creare una certa attenzione intorno a questi progetti musicali. Per quanto ci riguarda il nostro tipo di proposta ci trova in un limbo tra quel pop che va in voga e quel panorama indipendente. Non siamo abbastanza pop per il primo caso e lo siamo troppo per il secondo. Sono convinto che questa attenzione crescerà, Sanremo o non Sanremo. Mi auguro solo che aumentino gli spazi per tutti i tipi di proposta musicale».
Ma una proposta come la vostra come potrebbe avere spazio nei talent show che vanno tanto di moda?
«Non credo proprio che lo possa avere, si tratta di un altro modo di concepire e di fare musica. Nei talent si tende a creare dei personaggi televisivi che sono più che altro interpreti e noi non lo siamo. Abbiamo un altro approccio alla scrittura e alla musica e il talent è un mondo che non sarebbe in grado di rappresentare quello che noi facciamo».
Il nuovo album “Il cammino di Santiago in Taxi”, perché quel titolo?
«Mi è stato raccontato che una signora ha fatto veramente il cammino in Taxi, la cosa mi sembrava divertente e ideale per descrivere lo scenario attuale che ha una tendenza all’immagine e al confort. In molti, come alla signora, interessava dirlo di aver fatto il cammino di Santiago e non l’averlo fatto. E poi su quel taxi alla fine ci sono anche io perché mi rendo conto di affrontare tematiche importanti ma cerco scorciatoie come le canzoni».
Ed una canzone dedicata a Kurt Cobain nel ventennale della sua morte, cosa ti ha spinto a farla?
«Per me è stato un evento traumatico all’epoca. A distanza di anni mi ha suggestionato l’idea di questa persona molto sensibile, intelligente e ironica e che poi è stata la metafora perfetta dell’ambivalenza del successo. Quel successo che credo lui non cercasse neppure ma che gli è arrivato addosso e che in qualche modo l’ha schiacciato. Nell’epoca dei talent in cui mi pare molto sdoganata l’idea che la cosa importante nel fare musica sia il successo, nell’era in cui se non sei qualcuno sei nessuno, ho ritenuto opportuno fare un pezzo sulle controindicazioni di queste filosofie di pensiero».
E l’idea invece di rifugiarsi in un ex convento vicino Cosenza per registrare il disco da cosa è dettata?
«Non volevo farlo in uno studio di registrazione e all’inizio avevamo anche pensato ad un casolare delle campagne senesi, poi abbiamo avuto la fortuna che alcuni amici avevano in gestione questo ex convento con una chiesa e l’idea ci è piaciuta subito. Un po’ come i cccp all’epoca di “Epica Etica Etnica Pathos”. Siamo stati lì per 15 giorni come se vivessimo in una comune anni ’70. Devo dire che è stata un’esperienza bellissima fuori da uno studio che ti fa perdere a volte la suggestione di incidere dei brani».
Tu andrai mai a Sanremo?
«Non lo escludo. Non ne faccio una questione ideologica. Io faccio canzoni all’italiana ma è fuori dal mio mondo il fatto che Sanremo sia uno spettacolo spiccatamente televisivo in cui la musica è ha assunto il ruolo di pretesto, anche se dipende da edizione a edizione. Se un giorno dovessi decidere di farmi vedere da milioni di persone per tre minuti, e se mi ci vogliono, perché no? Ma non rimane certo una priorità. Sono molto contento del percorso che sto facendo e dei molti concerti con tanta gente; rappresentano una dimensione che mi si confà di più in questo momento».
E questa dimensione vi fa sentire fuori tempo o snobbati?
«Ci sono tanti fenomeni spinti mediaticamente che non riescono a fare i numeri di persone che facciamo noi. Questo vuol dire che c’è una fetta di pubblico, e non una fetta di artisti, che è come se non esistesse ma invece c’è. Il nostro pubblico ci segue anche perché ci vede alternativi al mondo convenzionale. A me, finché riesco a fare concerti e camparci, ad avere un pubblico molto affettuoso e poco legato all’aspetto spettacolare dei live, interessa il giusto tutto il resto. Non è snobbismo ma voglia di far arrivare le mie canzoni a quante più persone possibile senza che io venga snaturato».
Cosa farai per prima cosa rimettendo piede a Siena?
«Me ne vado a mangiare un ciaccino».

Cristian Lamorte

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