Una catastrofe imprecisata ha spazzato via la civiltà. I superstiti vivono nella paura perché nel mondo descritto nell’ultimo romanzo di Gipi, “La terra dei figli” (Fandango Editore), ogni incontro può essere letale. Nell’aria satura di mosche, sulle rive di quelle acque dalle quali affiorano cadaveri e veleni, ci sono un padre e i suoi due figli, che vivono in una baracca e lottano ogni giorno per sopravvivere. C’è un quaderno, sul quale il padre scrive qualcosa ogni giorno. I figli vorrebbero sapere, ma lui non ha insegnato loro a leggere. Sono soli. In un mondo dove la società non esiste più. In un futuro post disastro che è lo specchio deformato del nostro presente, una distopia in cui i personaggi si muovono senza passato né futuro, in un limbo dove risuona forte l’eco della Strada di McCarthy e i sentimenti negativi, la paura e l’odio, sembrano aver preso il sopravvento sui fragili resti dell’umanità. Una narrazione essenziale, scarnificata, dalla quale l’autore ha tolto tutto ciò che poteva. Senza io narrante, senza riflessioni a margine, senza colore. Senza il Gipi cui eravamo abituati. Eppure, “La terra dei figli” è Gipi all’ennesima potenza. In assoluto, un maestro del fumetto italiano. Un artista che ha sovvertito i propri stessi canoni, per esplorare questo mondo sfuggente e terribile che fa da sfondo a questa sua nuova storia. Ho avuto la fortuna di intervistare Gipi (al secolo Gian Alfonso Pacinotti) qualche mese fa, all’uscita del libro, e questa è la “versione estesa” di quella chiacchierata.
Per certi aspetti questo libro rappresenta uno stacco rispetto ai tuoi lavori precedenti. Innanzitutto per il disegno. Se con il precedente “Unastoria” avevi raggiunto un uso del colore pazzesco, pittorico, forse il momento più intenso, da questo punto di vista, della tua produzione, per la “Terra dei figli” hai resettato tutto e sei passato al bianco e nero. Perché?
“Era la storia che lo chiedeva. Ogni storia che ho fatto conteneva già, all'interno dell'idea di base, anche la tecnica con la quale realizzarla. La Terra dei figli doveva essere una storia primitiva, minimale e ridotta all'osso. Il disegno doveva quindi rispecchiare e, se possibile, rafforzare, questa caratteristica. Volevo una tecnica di disegno che non avesse strati aggiuntivi che sarebbe stato possibile togliere. Il colore, ad esempio, può essere tolto da un disegno ma il disegno resta. Ecco, non volevo che ci fosse niente in più del tratto”.
L’altro stacco con la tua produzione precedente riguarda la storia che racconti. Qui non c’è quel tipo di autobiografismo che era diventato un elemento ricorrente nei tuoi libri. È come se avessi deciso di toglierti dalla scena per lasciare il palcoscenico ai tuoi personaggi, lavorando a una fiction intesa in senso più classico. Dove nasce questa decisione?
“Dal fatto che con il tempo si cambia, immagino. Nei libri precedenti avevo quasi sempre usato me stesso come elemento narrativo. A volte in modo anche spudorato. Adesso, riguardando i libri fatti in quel modo, ho un po' di vergogna. Era come se nei volumi precedenti fosse sempre presente una richiesta di affetto sulla mia persona, più che sulla storia che raccontavo. Era il mio modo di raccontare, mi veniva naturale, ma adesso quel modo mi mette a disagio e sono contento di non essere presente, personalmente, come voce ne La terra dei figli”.
Hai raccontato la provincia come pochi altri autori hanno saputo fare. Un mondo di marginalità e periferie che nei tuoi libri ha assunto un sapore quasi epico. Qui invece il contesto è appena accennato: ci sono un lago, una vecchia fabbrica, elementi che potrebbero essere ovunque. Hai voluto fare piazza pulita per arrivare dritto alla natura più intima dei personaggi?
“Avevo bisogno di una ambientazione desertificata. Il lago che ospita la storia è sempre immobile, non genera onde, non produce fruscio d'acqua. E i personaggi sono quasi sempre isolati da tutto. Questa solitudine mi serviva anche per avere sempre il fuoco sui personaggi visto che, togliendo la voce narrante, avevo lasciato a loro, alla loro recitazione e alle loro azioni, il carico di condurre la storia”.
Come per ogni distopia in realtà l'impressione è che si parli dei tempi odierni. I due personaggi che adorano i gattini e tengono prigioniera una schiava in gabbia, per venderla come cibo, sono una metafora di Facebook? Ce la puoi spiegare?
“Non posso spiegarla… posso dire però che per il linguaggio, per certi atteggiamenti, mi sono certamente ispirato a linguaggi e atteggiamenti che incontro frequentando i peggiori bar di Facebook. La capacità di generazione d'odio che le persone riescono a mettere in atto e per scritto mi ha sempre colpito molto. Inoltre non è raro che i peggiori odiatori siano anche persone che mostrano una grande sensibilità per gattini o bestioline indifese. Più volte mi sono trovato a leggere bacheche di utenti dove si alternavano richieste di adozioni per cagnolini zoppi e incitamenti allo sterminio di immigrati o Rom. Questa coabitazione di sentimenti estremi - che, ottimisticamente, reputo entrambi fasulli - è stata una buona ispirazione per generare i peggiori personaggi della vicenda raccontata nel libro”.
La tua passione per i giochi e il fantastico ti ha portato a creare un gioco di carte, Bruti, fatto di mostri e guerrieri. Eppure non hai mai lavorato in questo ambito con il tuo fumetto, preferendo sempre ambientare le tue storie in contesti realistici, a te molto vicini. Ci spieghi questa scelta?
“Solo ultimamente ho cominciato a lavorare su storie completamente di fantasia. Fino a un paio di anni fa ero legato a doppio filo alla rappresentazione del reale, anche se sempre trasfigurato e trasformato. Ma adesso le cose sono cambiate, credo che anche questo abbia a che fare con la perduta necessità di raccontare me stesso. Bruti è, principalmente un divertimento, anche per me che lo invento e lo disegno. È il lato più leggero del mio lavoro”.
Con i tuoi lavori hai vinto premi in tutto il mondo. Ma nel 2014 il tuo Unastoria è stato il primo libro a fumetti a essere candidato al Premio Strega. Cosa ha significato per te, per il tuo lavoro e più in generale per il fumetto italiano quel passaggio?
“Per me ha significato un maggior numero di copie vendute. Per il fumetto non lo so ma forse è stato un altro piccolo passo per far conoscere questo mezzo anche a lettori che magari nel passato lo hanno snobbato, ritenendolo un mezzo adatto solo al racconto di storie frivole o per ragazzini (senza nulla togliere alle storie frivole o per ragazzini). Con il fumetto, secondo me, si può raccontare tutto. È un mezzo potentissimo, se usato bene, e che permette all'autore di lavorare con assoluta libertà”.
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