Italia-Germania, la semifinale del Mondiale giocata allo Stadio Azteca di Città del Messico il 17 giugno 1970, è considerata la partita del secolo. Un mito che ha attraversato indenne la storia del calcio e che rimane vivo ancora nel 2020, quando ci ritroviamo a celebrare il cinquantesimo di questo storico incontro che incollò alla radio e alla tv milioni di italiani, fino a notte fonda e fino al rocambolesco 4-3 finale.
Riccardo Cucchi, storica voce di “Tutto il calcio minuto per minuto”, per questa occasione ha scritto “La partita del secolo. Storia, mito e protagonisti di Italia-Germania 4-3 ” (Piemme). Si tratta della terza pubblicazione per una delle voci storiche dello sport su RadioRai. Il libro verrà presentato a sabato 12 settembre alle ore 18.00 all'interno dell’undicesima edizione de "
I colori del libro" a Bagno Vignoni (San Quirico d’Orcia, Siena). Si tratta di un romanzo ben scritto, dove si alternano con naturalezza la cronaca della partita, affreschi dell’epoca e sorprendenti aneddoti sui protagonisti di quella partita. Abbiamo scambiato alcune battute con il gentilissimo Riccardo Cucchi, in vista dell’incontro a Bagno Vignoni.
Italia Germania 4-3 è da sempre considerata “la” partita per noi italiani. Com’è nata l’idea di celebrare il cinquantennale di questa partita con un libro?
Volevo coronare un sogno che avevo da ragazzo. Quel giorno avevo 17 anni e mentre trepidavo assieme a mio padre, davanti alla tv, per il destino della nazionale, già coltivavo segretamente il desiderio di poter fare da grande il lavoro di Nando Martellini o di Enrico Ameri, le voci storiche che stavano raccontando quella Italia-Germania alla tv e alla radio. A distanza di tanti anni, dopo aver appeso il microfono al chiodo, ho deciso di accontentare i sogni di quel ragazzo e raccontare finalmente la partita che ogni cronista avrebbe voluto vivere. Questa volta utilizzando la parola scritta anziché quella parlata: così è nato il libro.
Il suo sogno si è avverato e la sua voce è diventata, per 35 anni, uno dei simboli di Tutto il calcio minuto per minuto e di Radio Rai. Ci ha raccontato, sempre alla radio, otto olimpiadi e sette mondiali di calcio. Secondo lei c’è stata una partita, in questo secolo, così epica come Italia -Germania del 1970?
Difficile trovare una degna erede. Quando ci riferiamo a Italia-Germania 4 a 3 come alla partita del secolo non vogliamo dire che sia stata la più bella partita di sempre. È rimasta impressa nella memoria collettiva perché rappresenta ancora oggi l’essenza del calcio, la sua capacità di trasferire emozioni dal campo a chi guarda o ascolta, soprattutto capace di mescolare nel giro di pochi minuti - la mezz’ora dei supplementari - così tante emozioni, contrastanti tra loro. Non è la miglior partita della nostra nazionale contro la Germania, basti pensare allo splendido 2-0 di Dortmund, ma quella partita è l’emblema della bellezza e della imprevedibilità del calcio e, in fondo, del destino che accompagna ogni vicenda umana, non solo dentro al campo di gioco.
Nel suo libro ritroviamo un mondo del calcio molto diverso da quello attuale, fatto di relazioni umane schiette, calciatori nati negli oratori, campioni che scelgono di giocare in provincia per tutta la vita, come Gigi Riva. Secondo lei c’è ancora spazio per raccontare in modo romantico il calcio di oggi? O hanno vinto l’iper professionismo, i procuratori e le polemiche per il Var?
Siamo ancora in tempo per raccontare il bello di questo sport, naturalmente tenendo conto dell’evoluzione del calcio, anche a livello di business. Ho definito quella partita come ultimo raggio del tramonto di un calcio romantico, proprio nel momento in cui vivevamo l’alba dell’avvento della televisione. Da quel mondiale in poi la televisione si sarebbe, in qualche modo, impossessata del calcio imponendo trasformazioni radicali. Oggi siamo abituati a vedere decine di replay, 24 telecamere che montano un film in diretta della partita, mentre all’epoca i giocatori nemmeno guardavano le telecamere! Però dobbiamo ricordarci che l’industria calcio non produce né cioccolatini né automobili, ma produce passione, un bene raro e prezioso. Per questo dico che siamo ancora in tempo ad afferrare il lato romantico del calcio.
Nel suo libro lei dedica spazio anche a chi ha “raccontato” quella partita i giornalisti Ameri, Martellini, che lei considera tra i suoi maestri. Per quanto riguarda la letteratura, invece, quali sono i suoi punti di riferimento?
Sono follemente innamorato della letteratura sudamericana, di Eduardo Galeano, Osvaldo Soriano, anche Antonio Skármeta che oltre al celebre "Il postino di Neruda" ha dedicato pagine meravigliose al calcio. Questa formazione culturale mi ha sempre portato a voler capire chi fosse il personaggio che toccava il pallone, chi ci fosse dietro l’uomo con la maglietta colorata e i pantaloncini corti. Grazie a loro questa visione del calcio mi ha accompagnato per 40 anni nei quali ho avuto il privilegio e la fortuna di raccontare tante partite. Se ci fermassimo soltanto ai 22 giocatori che inseguono un pallone non capiremmo nulla di questo sport. Come ho scritto nel libro, il calcio è una palla che rotola su un prato, attorno alla quale si snodano le nostre esistenze: quelle dei calciatori, in primis, ma anche le nostre che partecipiamo a un rito collettivo.
Dopo aver appeso il microfono al chiodo, è diventato un commentatore attivo su Twitter, sempre con grande garbo ed equilibrio. Cosa ne pensa di questa epoca di opinionisti sportivi muscolari e spacconi, tanto che spesso si fa fatica a trovare la differenza tra i tifosi e i giornalisti?
Come tutti, anche io sono tifoso (della Lazio, ndr), ma ho dichiarato pubblicamente quale fosse la mia squadra del cuore soltanto quando ho smesso di lavorare. Per un motivo semplice: io credo che il lavoro del cronista, e soprattutto del radiocronista, che deve raccontare una partita a chi non può vederla, sia fondato sulla fiducia. Chi ascolta deve aver fiducia nelle parole che io pronuncio, si deve poter fidare di chi narra. Dobbiamo essere capaci di emozionarci per emozionare, ma dobbiamo perseguire la massima obiettività. Dirò di più: ogni giornalista non solo sportivo, come diceva Enzo Biagi, dovrebbe essere sempre e solo testimone della realtà.
Ultima domanda, mi dica la verità, se lei fosse stato in Valcareggi, chi avrebbe fatto giocare nella finale col Brasile: Mazzola o Rivera?
In Italia, all’epoca era impossibile concepire che due grandi calciatori potessero giocare insieme. Mazzola era un grandissimo fuoriclasse, Rivera aveva appena vinto il Pallone d’oro - come se fosse il nostro Messi - ma noi non siamo stati in grado di farli convivere. I brasiliani per primi furono sorpresi nel non vedere Rivera schierato nella finale. Un Brasile che, non scordiamocelo, giocava con Pelé, Rivelino, Gerson, Tostão e Jairzinho, il massimo del calcio offensivo di quegli anni. Non era certo colpa di Valcareggi, ma di una cultura calcistica che vedeva nel catenaccio e nel contropiede l’anima stessa del calcio italiano. Ci sono voluti anni per capire che i campioni possono convivere insieme in un campo di calcio.