Pochi fortunati hanno avuto la possibilità di entrare nelle stanze dell’ex manicomio senese dopo la sua chiusura. Tra questi, tra coloro che sono davvero consapevoli di aver avuto questa fortuna, tra gli osservatori più attenti di quegli spazi, del loro valore e del loro passato, c’è Fabio Mugnaini, docente di storia delle tradizioni popolari ed etnologia europea all’Università di Siena. Mugnaini è inoltre uno dei membri del comitato scientifico per il progetto “Memorie dalla città dei Folli” che Crea (Centro Ricerche Etno-antropologico) sta portando avanti per catalogare, conservare e valorizzare il fondo archivistico e fotografico dell’ex ospedale psichiatrico avviando poi una ricerca antropologica sulla base dei contenuti delle cartelle cliniche.
Cosa rappresenta per Siena il villaggio manicomiale di San Niccolò?
“Prima di tutto bisogna specificare che il manicomio come istituzione fosse ispirato ad una visione concentrazionale della vita sociale e che aveva come compito non quello della cura ma quello della segregazione. L’istituzione manicomiale nasce per dichiarare a colui che ne rimane fuori che è sano”
Chi erano invece le persone all’interno?
“I malati lo erano secondo una varietà di sofferenze molto complessa di cui la psichiatria ha cercato di dare sistematizzazione ricorrendo a delle griglie sempre più precise ma anche sempre più inadeguate. Il manicomio era un’istituzione nata all’interno del mondo medico preoccupandosi di dare un’organizzazione a questa “società altra” rinunciando però all’obiettivo della cura. Ne nasceva così una società chiusa che era quasi il rovesciamento speculare del mondo reale perché dentro si tendeva a fare le stesse cose tranne tutto quello che nel mondo esterno serviva agli individui per riconoscersi come tali. Nel secondo dopoguerra, quando l’Europa usciva dall’esperienza e dallo scandalo dei campi di concentramento, ci si rese conto che queste strutture, volente o nolente, non avevano altra ragione che tenere concentrati fuori dal mondo reale coloro che erano considerati anormali. Ecco come si arriva ad un paradigma insostenibile e quindi alla Legge Basaglia e alla chiusura dei manicomi”.
Quali erano le terapie?
“Non servivano ad aggredire alla radice la malattia mentale ma miravano semplicemente al controllo delle crisi e le modalità per fare questo erano quelle di crearne una superiore. La terapia era un reset nel buio di una mente confusa nella speranza che poi tornasse la luce. I metodi per raggiungere questo andavano dalle iniezioni di latte, la somministrazione di sostanze che facevano salire la febbre fino a livelli insopportabili e poi con la somministrazione dell’insulina fino al coma fino ad arrivare all’elettroshock. Significava in sostanza fare del male ad una persona nella speranza che questo male la facesse guarire. Senza nessun risultato”.
Cosa succede quindi dopo il 1978?
“Quello che succede dopo la legge Basaglia è una storia altrettanto dolorosa perché con la chiusura dei manicomi non si sono risolti i problemi legati alla malattia mentale né quelli legati all’aiuto da dare alle persone che soffrono di queste sofferenze mentali. Il manicomio andava comunque chiuso perché non esistevano più ragioni accettabili per tenerlo aperto, ecco perché non può essere rimpianto. Rispetto al San Niccolò bisognerebbe che la nostra città e anche la nostra comunità universitaria assumesse questa posizione duplice di rivendicazione come parte di un patrimonio che ha fatto la storia di Siena e, in quanto tale, di salvaguardia di ciò che rimane perché ci ricordi costantemente che la barbarie non è degli altri ma molto vicina alla nostra esperienza”.
Cosa è possibile fare quindi per la sua conservazione?
“Non dobbiamo affrontare le parti meno nobili o più oscure della nostra storia. Siamo un paese che ha molte glorie, molte di queste anche vane, ma abbiamo ancora da imparare da una serie di esperienze che fanno parte del passato. Aver chiuso i manicomi è una nostra gloria nazionale così come non aver risolto i problemi legati alla tutela dei malati mentali è una nostra vergogna nazionale. Ora non dobbiamo rimuovere. Che il San Niccolò è stato un manicomio si deve sapere per sempre, fa parte di quegli spazi a ridosso delle mura tuttora e oggi, dato per certo che quelle stanze non le riapriremo più con quelle finalità, possiamo farci di tutto. Ci sono attività più inclini a ed altre meno per quegli spazi che devono restare patrimonio collettivo. Tutto quello che comporta il diritto del pubblico, della cittadinanza e dei visitatori, a transitare in quegli spazi secondo me può trovare accoglienza e destinazione d’uso. Vanno salvati poi alcuni luoghi specifici con tracce di carattere monumentale che non possono essere perdute. La palazzina è stata drasticamente rivoluzionata dalla sede della facoltà universitaria e io, onestamente, avrei preferito che il mio ateneo si fosse rapportato con quegli spazi con maggiore sensibilità. Sono rimasti però degli altri spazi da conservare difficilmente riutilizzabili. Il primo è la farmacia che è anche un raro esempio di architettura scientifica. C’è poi la stanza che ha conosciuto anche i consigli di facoltà d’ingegneria ma che in realtà ha ospitato “gli agitati” che non potevano uscire e che, al contempo, non erano così pericolosi da chiuderli nelle celle. Una sala di forma ellittica e con due colonne all’interno intorno alle quali gli ammalati giravano tutti nella stessa direzione, per tutto il giorno, di tutti i giorni e di tutti i mesi della loro permanenza là dentro. Un altro spazio è il padiglione Conolly per gli iperagitati che è un raro esempio di architettura per il controllo totale nei manicomi, che testimonia quanto fossero raffinati i meccanismi di segregazione. Là dentro ci sono graffi incisi dai degenti con le unghie. Quel pezzetto di intonaco vale quanto l’intero Buon Governo del Lorenzetti e una città come la nostra non può non salvarlo e finalizzarlo ad attività pubbliche. Le generazioni che verranno hanno il diritto di poter vedere con i propri occhi tutto questo”.
Quale potrebbe essere dunque la destinazione d’uso?
“Siccome nella nostra società la propulsione a produrre delle esclusioni sono costanti, ribadisco che innanzi tutto quegli spazi devono essere pubblici e magari attraverso il coinvolgimento di quelle associazioni di volontariato che a Siena si occupano degli esclusi moderni. Bisogna sapere cosa si celava dietro quelle grate e solo così si può capire la necessità di evitare di mettere dietro le grate qualcun altro”.
Di chi è la responsabilità per cui questi spazi non sono fruibili a tutti?
“Credo che le amministrazioni che siano rimaste più ferme sotto questo punto di vista siano il Comune e per certi versi la Usl. Poi esiste una responsabilità oggettiva che è la nostra dal momento che le amministrazioni devono rispondere alle domande e alle esigenze dei cittadini. Spero che arrivino quanto prima delle risposte esplicite e concrete perché, con il passare del tempo, si rischia di perdere anche la percezione che quello spazio sia meritevole di attenzione”.
Cristian Lamorte
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