Cronache d’amore e di dolore dalla “Maremma amara”. La strage di Ribolla nel ricordo di Mauro Barni

il 05/05/2014 - Redazione
In occasione del 60esimo anniversario della strage di Ribollla, sienalibri.it ha raccolto la testimonianza di Mauro Barni, medico legale e testimone della tragedia del 4 maggio 1954.

Non era facile fino ad un decennio dopo la guerra raggiungere da Siena la costa tirrenica. C’erano cinque strade di cui una anch’essa a sterro pomposamente chiamata da Radio Londra la SS 75 e c’era la incredibile scorciatoia del Petriolo. Non che la situazione viaria sia oggi eccelsa grazie anche alla “scelta” tutta personale di Amintore Fanfani che tacitò ogni buon consigliere tecnico scartando il percorso a valle per portare la “Due Mari” sopra la Farma e sotto Civitella (già, proprio Civitella!). Il versante costiero dell’antico Stato senese (sopravvissuto in pratica sino all’Unità d’Italia) era abbastanza lontano e misterioso per la maggior parte dei senesi, fatti salvi i professionisti, gli studenti grossetani e d’estate i bagnanti di Follonica, gente normale, anche di Contrada, mentre i vacanzieri più fortunati e un po’ snob adoravano la Versilia.

Eppure il fascino della costa grossetana era già intenso, malioso e si esaltava ogni volta che in auto superavamo, nei giorni invernali e piovosi, le boscose colline della terra di Siena per lasciarsi sorprendere dalla consueta metamorfosi del tempo meteorologico. A un tratto ci sorridevano il sole, il calore, il colore, il sapore stesso della Maremma, mitica terra dolce e ferace ma anche, per certi scorci, dura e scontrosa: già proprietà riservata ad un nobiltà terriera che era quella stessa che aveva dominato la città capitale.

E ci venivano in mente l’antica nostalgica canzone, immancabile negli improvvisati e arrochiti cori della sera: Tutti ti dicono Maremma Maremma e a me mi sembri la terra più amara …; e anche i ricordi danteschi di una improbabile Pia dei Tolomei relegata fino alla morte nel castello sotto Ribolla, e la palude (padule per i signori e i briganti) e l’afa agostana delle stupende valli della Cecina, dell’Ombrone, della Fiora (la Fiora malinconica che accompagnava l’anima del Pratesi dalle rocce dell’Amiata fino al mare).

Una terra amara, dunque, amata per tre realtà consonanti la miseria, la malaria, la miniera; la miniera che aveva perforato il cuore stesso delle montagne metallifere (dall’Amiata, alla cerniera d’alture costiere disposte da Gavorrano fino all’Isola del Giglio). Niente di simile ai bacini minerari delle Fiandre e dei monti Tatra: solo mercurio velenoso, maligno, pirite di limitato pregio e lignite poco calorica; ma non c’era di meglio. Là dentro si consumarono per tanti decenni la vita e la speranza degli amiatini e dei grossetani per lenire la grande miseria.

Anche la malaria si era attenuata a partire dal 1765 quando regnò Pietro Leopoldo segnando l’epoca più bella di Siena: Grosseto era un borgo di settecento anime, Massa Marittima di trecento; “nella zona del piano raccontano i due ricordati narratori del secolo scorso, era impossibile vivere durante i mesi caldi. Il Granduca scatenò una battaglia vittoriosa gettandosi in un’ “impresa epica come la conquista del west”, durata almeno un secolo e culminata con una colonizzazione che metteva in pratica l’antico auspicio di Sallustio Bandini e che il solito Amintore doveva alterare con centinaia di casette pseudo-mezzadrili sparpagliate contro ogni logica ambientale.

Ma intanto pastori, braccianti, boscaioli si convertivano al maledetto lavoro di miniera: per vivere ma cominciando subito a morire giorno per giorno dei mali della silice e dei vapori di mercurio sull’Amiata e ancora della silice nell’inferno umido delle gallerie rese micidiali per l’acqua marcia e per il sudore che maceravano la pelle dei minatori. La silicosi abbreviava la vita media, spalancava le porte dell’infame tubercolosi sia pur contrastata dalla politica sanitaria e previdenziale del fascio, l’unico beneficio tra tanti misfatti.

La miniera continuò a dar lavoro e quattrini fino ai primi decenni del dopoguerra ma privando la gente amiatina e grossetana del bene più prezioso. Qui a Siena non si sapeva molto di queste imprese che occupavano diecine di migliaia di persone e facevano centinaia di morti e di invalidi ogni anno. Anch’io, appena laureato, cominciai a capire solo per la militanza presso la medicina legale (1950) che mi fece ben presto scoprire la devastante realtà, lo scempio di corpi e di anime, lento, usurante, inesorabile.

A un tratto piombò su tutti la notizia della strage di Ribolla avvenuta verso le 8 e mezza del mattino del 4 maggio 1954, preceduta da un’esplosione violenta nel pozzo di Camorra dal quale cominciò a uscire una nube di fuoco, bruciante. Il grisou era deflagrato per la criminale trascuranza della necessaria ventilazione. Ne conoscevamo le ragioni e i misfatti degli affascinanti racconti di Cronin. Come lassù l’esplosione del gas colpì i cunicoli di Ribolla villaggio sperduto, di cui ben poco si sapeva: quarantasette operai furono sbatacchiati, asfissiati, bruciati: tutto il turno del mattino!

L’impressione fu enorme in tutta la Maremma e a Siena. Ovunque raggelava la sensazione di panico e lo spettro della rivolta. Anche i soccorsi furono prevalentemente portati dai minatori superstiti “con il panico, scrivono i nostri autori la paura rabbrividì i benpensanti”. La gente era già esasperata e pareva pronta a tutto e specialmente le donne, colpite ancora, appena dieci anni dopo un’altra strage, quella di Niccioleta quando i tedeschi e i fascisti in fuga, sorpresi dalla presenza dei partigiani nel paese si avventarono sui minatori “e al tramonto ne giustiziarono settantasette lasciandoli a marcire in una specie di dolina”.

Ma a Ribolla il dolore, la responsabilità, la passione della gente prevalsero sull’odio e sulla rabbia: “la mattina del 7 maggio tutte le salme recuperate e tirate fuori dalla galleria venivano composte da alcuni medici ed infermieri per dar loro un nome alla presenza del procuratore della Repubblica dottor Milanese e poi allineate nella sala del cinema entro umili bare”. Il riconoscimento, necessario anche per dar corso all’indennizzo dell’INAIL era molto indaginoso, chiamato il medico legale, il mio Maestro, che mi portò con sé per aiutarlo nell’impresa che fu portata a termine alla meglio: allora non si sapeva nemmeno che esistesse il DNA. Più tardi si svolse la temuta cerimonia commemorativa in piazza sotto una cappa soffocante di caldo e di miasmi. “Il servizio d’ordine venne assolto da squadre di operai che avevano sostituito gli agenti e i carabinieri”. Ai funerali parteciparono non meno di 50.000 persone in un silenzio profondo, bagnato dalle lacrime parlò; tra gli altri il grande italiano Giuseppe di Vittorio, Segretario nazionale della CGIL: parole serene, profonde, talvolta spezzate dal pianto, parole di pace, parole di conforto, di perdono, di impegno sofferto e vero.

La tragedia di Maremma segnava il principio della fine delle miniere e cioè di un’economia, di una maledizione e di una strage (che tuttavia si ripresentava analoga nel 1956 a Marcinelle ove centinaia di persone lasciarono la vita (oltre la metà degli italiani ceduti al Belgio in cambio di 2.500 tonnellate di carbone al mese per ogni 1.000 operai emigrati). Dalla comunione della morte nasceva il primo germe dell’Europa: la comunità cioè del carbone e dell’acciaio. A Lussemburgo (e c’ero anch’io tra i delegati italiani nel 1958) già si cavillava e si mercanteggiava senza pensare davvero ad un’Unione dei popoli solidale, affratellata dalla comune memoria, dalla comune civiltà. Mi pare che le cose, ora, non siano cambiate di molto.

È straordinario rileggere “I minatori di Maremma” che due giovani scrittori socialisti, Luciano Bianciardi, grossetano e Carlo Cassola, scrissero insieme nel 1956 (il libro è stato ristampato nel 2004 da un editore milanese). C’è trasfuso tutto il dolore della gente, la sua voglia e in fondo la sua gioia di vivere. L’amara terra d’altronde è la nostra terra, un pezzo di Toscana distesa tra Siena e il mare. Le cronache d’amore e di dolore che è doveroso ricordare riguardano tutti noi, tutti i nostri giorni.

 

Mauro Barni

 

 

 

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