Ogni libro di Vanni Santoni ci porta in un mondo. E questo vale sia per i mondi immaginari della sua produzione fantasy, il ciclo di Terra ignota, sia per i mondi che si trovano nel nostro, ma in una posizione non sempre visibile e quindi accessibile. Come il mondo dei rave party di “Muro di casse” o quello del gioco di ruolo di “La stanza profonda”, con il quale Santoni è stato candidato al Premio Strega. Ma per il mondo in cui l’autore ci porta con il suo nuovo romanzo “L’impero del sogno” il discorso è ancora più complesso. Perché pur essendo una storia ambientata della nostra realtà, tra Figline Valdarno e Firenze, c’è uno scambio a doppio binario con un luogo fantastico, che è poi quello dal quale nasce la storia di Terra ignota. In pratica, Santoni ci porta in una specie di multiverso connettivo, in cui avviene che il protagonista, il Mella, sognando, passi dalla nostra realtà a un mondo “altro”, che si risveglia ogni volta che lui si addormenta, come in un sogno a puntate, e che a sua volta varca la soglia del nostro contesto ordinario, irrompendovi con i suoi personaggi immaginari. Il trionfo del fantastico, insomma. Una narrazione in cui l’autore si muove tra cultura alta e cultura pop con fluidità, in un registro narrativo in cui convivono Borges e Dungeons&Dragons, Kafka e le Magic, Tagore e Dragonball. Un tessuto narrativo capace di rielaborare l’immaginario che si è sviluppato tra gli anni Settanta e i Novanta, attingendo a una produzione letteraria che in quel periodo si è beccata le peggiori accuse di escpiasmo, ancora oggi tutt’altro che risolte.
Partiamo da qui, chiamando in causa il nostro autore direttamente sulla questione della letteratura fantastica, troppo spesso confinata da una lunga serie di pregiudizi in ambiti culturali maleodoranti dai quali sarebbe stato davvero bene fuggire. Questo avviene ancora o è un pregiudizio ormai superato?
«Il pregiudizio contro i cosiddetti “generi”, e in particolare contro il fantasy, ha una storia lunga e complessa, che in Italia è rinforzata da fatti specifici, come l’ostilità di Benedetto Croce, quella della scuola di Gentile, e l’assenza di grandi narratori fantastici popolari (anche chi, fra i nostri autori del Novecento, ha toccato il genere, penso a Calvino, Landolfi, Buzzati, lo ha fatto sempre con l’altro approccio, quello in cui l’elemento fantastico ha una funzione allegorica o di speculazione filosofica), che ha generato anche un “buco” tale da portare chi, in epoche più recenti, si è riavvicinato al fantasy nel nostro paese, a farlo prendendo a modello Tolkien o i suoi epigoni, risultando così derivativo e in fin dei conti poco originale. Anche per questo per “L’impero del sogno” ho scelto un’ambientazione italiana, tra la provincia toscana, Pisa, Firenze e Torino: non c’è bisogno di fare gli anglosassoni per forza, anzi se vogliamo rifondare una tradizione fantastica italiana credibile è importante ripartire da ciò che abbiamo in casa, sia a livello di ambientazione che di immaginarî».
L’input iniziale a “L’impero del sogno” è stato davvero un sogno?
«Sì, come scritto nella nota finale del libro, tutto nasce da un sogno fatto a Londra nell’autunno del 2011. Mi ero ritirato là per un po’ così da concentrarmi solo sulla scrittura – ai tempi dovevo scrivere “Tutti i ragni” e cominciare la progettazione dei due Terra ignota – e feci questo sogno, che mi colpì anzitutto per il suo essere seriale: ogni volta che mi addormentavo, per tre o quattro notti consecutive, riprendeva, come fosse una narrazione unica. Il che forse non è così strano viste quante narrazioni seriali abbiamo consumato e consumiamo, tra cartoni animati, fumetti e serie TV, ma questo aspetto, unito al suo essere ricolmo di elementi bizzarri – ero infatti ospite di un convegno assieme a draghi, dei, alieni e esseri fantastici di ogni genere – mi persuase a trascriverlo. Pensai che un giorno avrebbe potuto tornare utile per qualche libro, anche se non c’entrava niente con quelli che stavo scrivendo al momento. Sei anni più tardi è andata proprio così, anche se poi l’aver messo un protagonista di finzione come il Mella mi ha fatto cambiare alcuni elementi, così come altri sono cambiati per esigenze puramente narrative».
Questo romanzo è una specie di intersezione tra altri tuoi libri, sembra di vedere sullo sfondo un disegno unico, che comprende da una parte la tua produzione più marcatamente fantasy, ambientata cioè in un mondo di fantasia, e quelli più realistici, ambientati nel nostro mondo. È così? C’è davvero in questo libro un qualcosa che riconnette tutti gli altri?
«In realtà tutti i miei romanzi sono collegati, anche se sono tutti autoconclusivi – pure “Terra ignota 2”, che è un sequel fin dal titolo, è pensato per essere leggibile in modo autonomo. Ho cominciato a realizzare di star costruendo una “continuity” quando mi sono scoperto a utilizzare Iacopo Gori, tra i protagonisti degli Interessi in comune, anche in “Muro di casse”. Una fusione così netta di due romanzi andava oltre quello che stavo già facendo – ad esempio “Se fossi fuoco arderei Firenze” è una sorta di satellite narrativo degli stessi Interessi in comune, e utilizza, ampliandoli, dispositivi testati in “Personaggi precari” – e mi fece vedere in maggior prospettiva la possibilità di questo macroprogetto. Così anche nella “Stanza profonda” scelsi di mettere tra i protagonisti il Paride, anche lui proveniente da “Gli interessi in comune”. A quel punto usare il Mella per “L’impero del sogno” è apparso addirittura inevitabile. Vero è però che fino a questo momento la piccola saga composta dai due Terra ignota era rimasta avulsa dal resto, proprio per la sua natura puramente fantastica. “L’impero del sogno” compie, come giustamente dici tu, la saldatura finale tra il cespite realistico della mia produzione e quello fantastico. Per quanto a livello tematico “L’impero del sogno” si leghi più a “Muro di casse” e “La stanza profonda”, dato che tutti si rapportano in modi diversi alla questione degli immaginarî e della resistenza a una realtà ingrata, in cui il desiderio utopico è stato bandito, a livello strettamente narrativo ha anche funzioni da prequel rispetto ai due Terra ignota: racconta infatti la genesi dell’Imperatrice e soprattutto spiega, in modo diciamo “cosmologicamente coerente”, perché il mondo di quei due libri è così costellato di riferimenti letterari. “L’impero del sogno” sigilla quindi il percorso dei miei primi dieci anni di attività – il mio esordio, “Personaggi precari”, è del 2007 – e chiude questa prima macronarrazione. Il grosso romanzo a cui sto lavorando adesso dovrebbe infatti costituire il punto di partenza per un prossimo ciclo».
Tornando alle connessioni, “La stanza profonda” e “L’impero del sogno” hanno una scena in comune: nella Stanza c’è il Mella (il protagonista dell’Impero) che arriva improvvisamente nel garage in cui gli altri (i protagonisti della Stanza) giocano di ruolo, chiede di riprendersi un suo vecchio manuale e se ne va. Nell’Impero c’è la stessa scena, ma dal punto di vista del Mella, che le fa assumere chiaramente un altro spessore. Questo vuol dire che mentre scrivevi la Stanza avevi già in mente di dedicare a questo personaggi una storia tutta sua?
«Quando stavo scrivendo “La stanza profonda”, oltre ad avere ormai piena consapevolezza della macronarrazione in cui sarebbe stato calato, stavo anche progettando un primo storyboard de “L’Impero del sogno” e, sì, avevo già deciso che Federico “Mella” Melani sarebbe stato il suo protagonista, così è stato abbastanza facile pianificare un vero e proprio crossover come quello che si può leggere adesso nei due romanzi».
La storia è ambientata negli anni Novanta (e infatti interseca “La stanza profonda” nel filone narrativo del passato), quando non c’era ancora l’euro e quando il web era una roba da pionieri. Una scelta, questa, che sembra inserirsi in un contesto più ampio, in cui si fa ricorso a questo salto nel passato prossimo per riportare in vita un certo immaginario. Penso per esempio a Stranger Things, una serie tv che ha avuto un successo enorme e che gioca molto con il tema giochi di ruolo e con tutto un universo culturale che ha, secondo me, qualche assonanza con il tuo. Stranger Things, appunto, è ambientato negli anni Ottanta. Ecco, è una scelta nostalgica, stilistica, estetica oppure è solo perché a quei tempi non c’era ancora Facebook di mezzo?
«Ne “L’Impero del sogno” la funzione di portale tra il mondo reale e quello fantastico in cui poi sprofonda il protagonista è svolta dai sogni, ma ci sono anche altri due campi immaginari che hanno un ruolo decisivo: uno come detto, è quello della letteratura (anche disegnata), il fantastico sia cosiddetto “alto” – Borges, Kafka, Ariosto – che “basso” – Howard, Lovecraft, Berserk, Dragon ball – che sono stati alla base già di Terra ignota; l’altro è il mondo dei videogiochi, un’altra riserva di immaginarî decisiva per la mia generazione. In particolare la metà degli anni ’90 è stata un momento fertile perché vi si incrociavano tre piattaforme: il PC, che viveva la sua epoca d’oro, con adventure come Monkey Island, gestionali come Civilization, gdr come Ultima, sparatutto in prima persona come Doom; le console, che dopo la stagione del Super Nintento del Mega Drive si preparavano a conquistare tutte le case con la Playstation e tutto ciò che sarebbe giunto dopo; e gli arcade, già prossimi al tramonto ma ancora capaci di sparare gli ultimi grandi titoli storici – penso a Golden Axe, Final Fight, Street Fighter II – prima che le sale giochi si trasformassero in squallide sale slot. Era quindi abbastanza logico scegliere quel periodo. Se poi ho scelto, nello specifico, l’anno 1997 – “L’impero del sogno” si svolge nell’arco di dodici giorni, nel marzo di quell’anno – è stato perché una volta deciso di avere il Mella come protagonista andava rispettata la cronologia già distesa negli Interessi in comune. Una fortunata evenienza è stato poi lo scoprire che proprio nel ’97 passava sopra l’Italia la cometa Hale-Bopp. E si sa, le comete annunciano sempre prodigi, se non l’arrivo di un messia».
Una narrazione fantastica ha bisogno di partire da un contesto autentico. Pennywise è reale perché prima di lui Derry è reale. Il tuo romanzo parte dalla provincia Toscana per lo stesso motivo? Figline Valdarno è per te il Maine di Stephen King?
«Prima di rispondere è importante ricordare che, pur facendo parte della cosiddetta “speculative fiction”, l’horror e il fantasy hanno meccanismi e necessità diverse. Nell’horror partire da un contesto reale o comunque familiare può essere molto utile, quando non essenziale, perché vanno create le premesse ordinarie da perturbare e poi lacerare con i dispositivi terrorizzanti. Nel fantasy tutto questo non è per forza necessario, tant’è che, ad esempio, Terra ignota si svolge interamente in un mondo fantastico, per quanto anche lì vi sia, ineludibilmente, la rottura di una situazione di relativa tranquillità che lancia la protagonista in un’avventura più grande di lei. Ragionando per categorie editoriali, “L’impero del sogno” andrebbe dunque a collocarsi sotto l’etichetta dello “urban fantasy”, ovvero quel tipo di fantasy che parte da un contesto realistico e contemporaneo, di cui è ottimo esponente proprio quel Neil Gaiman a cui questo romanzo tanto deve: il suo Sandman, con la storyline A game of you, in cui una ragazza newyorkese divorziata e annoiata ha una vita onirica ricchissima e a elevato tasso di responsabilità, è stato un’influenza decisiva. Circa la provincia toscana, mi viene naturale far partire da lì i miei romanzi, che siano realistici o come in questo caso fantastici, perché è un contesto che conosco bene. Non è assolutamente necessario partire da contesti esotici o bizzarri, quale che sia l’obiettivo finale di un romanzo: come aveva a dire Čechov, in genere chi cerca subito l’universale risulta provinciale, mentre chi accetta la propria provincialità rischia di raggiungere l’universale. Ne è un’ottima prova Philip Roth, che raramente si è mosso dalla sua Newark, eppure coi suoi romanzi ha raccontato l’America e il mondo con la potenza che conosciamo».
Oltre che autore sei anche direttore della collana di narrativa di Tunué. Ti va di parlarci di questo progetto e di cosa vuole raccontare?
«La collana “Romanzi” di Tunué compie in questi giorni tre anni di vita. Sono stati anni entusiasmanti, dato che non era scontato, nell’attuale panorama editoriale, che un progetto che intendeva puntare esclusivamente sulla qualità sulla prosa, e quasi sempre su autori esordienti e quindi sconosciuti, incontrasse come è accaduto il favore di critica e lettori e si affermasse con tanta forza. Festeggiamo questo terzo compleanno con la partenza bruciante del nostro dodicesimo titolo, “Suttaterra” di Orazio Labbate, che è anche la nostra prima riconferma, dato che Labbate esordì con noi nel 2014, con “Lo Scuru”. In questo romanzo Labbate affina e approfondisce il filone di cui è stato iniziatore, quel “gotico siciliano” capace di unire la tradizione di autori isolani come Bufalino o D’Arrigo con il southern gothic di Faulkner e O’Connor e con elementi orrorifici contemporanei propri di registi come Lynch o scrittori come Ligotti. In questi tre anni la collana Romanzi di Tunué è stata definita da più parti come una delle più importanti fucine di nuovi talenti in Italia, lanciando esordienti di grande successo come Iacopo Barison con il suo “Stalin+Bianca”, venduto anche all’estero e al cinema, o Luciano Funetta con “Dalle rovine”, ristampato varie volte in poche settimane e capace di arrivare nella “dozzina” del Premio Strega, un risultato importante per un editore indipendente e tanto più clamoroso se si pensa che era solo il nostro sesto titolo. Oggi il lancio di esordienti è riconosciuto come una della nostre caratteristiche principali e continuiamo con il nostro lavoro di ricerca e scouting, ma siamo cresciuti aprendoci anche ad autori già editi e affermati, come è il caso di Giordano Tedoldi, il cui “Tabù” è uscito subito prima di “Suttaterra”, facendosi molto onore».
Da qualche tempo tieni corsi di scrittura. Cosa cerchi di trasmettere a chi li frequenta? Come cerchi di accompagnare i tuoi studenti alla scrittura della loro storia?
«Ho cominciato a collaborare con la Scuola del Libro e con altre realtà in questo campo proprio a causa della mia collana di narrativa: la speranza, quando tengo un corso, è quella di scovare qualche talento da far crescere per poi inserirlo in scuderia. In generale non credo nell’insegnamento delle tecniche, dato che ogni singolo libro richiede lingua, forma, struttura e modalità espressive proprie e uniche. Quello che faccio è allora insegnare a pensare da scrittori, il che significa anzitutto insegnare o reinsegnare a leggere, nella quantità (e nella qualità) necessaria ad alimentare una simile ambizione, e poi a trovare una disciplina ferrea, che è l’altra condizione imprescindibile. A questo affianco un lavoro di intervento e editing in diretta sui testi degli studenti: se da un lato non ci sono tecniche universali da trasmettere per “scrivere bene”, dall’altro è pur vero che gli errori appartengono quasi sempre a un numero relativamente ridotto di filoni, e quindi si può insegnare almeno a evitare i principali e più diffusi».
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