Chissà perché un pamphlet di fuoco come il De papatu Romano Antichristo di Alberico Gentili rimase inedito. Eppure l’autore, un italiano esule per l’adesione alle idee della Riforma, regio professore di diritto civile all’Università di Oxford dal 1587, non aveva mai mutato le severe convinzioni che lo spingevano a identificare nel Papa romano l’Anticristo e non aveva mai interrotto il lavoro di cesello ad un testo di strepitosa erudizione e feroce polemica. Ora, finalmente, del manoscritto conservato nella Bodleian Library disponiamo di una magnifica edizione critica, curata da Giovanni Minnucci, ordinario di Storia del diritto medievale e moderno nel Dipartimento di Scienze Politiche e Internazionali dell’Università di Siena (Alberici Gentilis, “De papatu Romano Antichristo, recognovit e codice autographo bodleiano D’Orville 607”, pp. CLXII+352, € 62, Monduzzi Editoriale, Milano 2018).
Possiamo leggere per intero l’opera, non la sola inedita del giurista di San Ginesio, che alle stampe dette ventiquattro scritti di grande rilevo, e siamo autorizzati a formulare qualche credibile ipotesi. Alberico Gentili trascorse la parte iniziale della sua vita nella Marca anconetana, a San Ginesio, dove nacque il 14 gennaio 1552. Si immatricolò all’Università di Perugia nel 1569 laureandovisi in diritto civile il 23 settembre 1572. Fu costretto a fuggire nel 1579 insieme al padre Matteo, medico, e al fratello Scipione per aver aderito alle dottrine riformate, riparò dapprima a Lubiana, per poi passare in Germania e giungere, infine, a Londra, dove entrò in contatto con Giordano Bruno: un rapporto che proseguirà nel 1586 a Wittenberg, dove Gentili approda nel tentativo di trovare una buona sistemazione in un Ateneo tedesco. Infatti a Oxford, dove riuscì a ottenere la prestigiosa nomina rammentata, incontrava la decisa opposizione di settori importanti del partito puritano, capeggiati dal teologo John Rainolds. Era l’ottavo (primo straniero e, fino ad oggi, unico italiano) titolare della prestigiosa cattedra. La sua opera più nota è il De iure belli libri III (1598), che ha indotto la storiografia ad annoverarlo, con Ugo Grozio, fra i padri fondatori del diritto internazionale moderno. Gentili morì a Londra il 19 giugno 1608 e fu sepolto nella chiesa di Sant’Elena di Bishopgate. Si deve aggiungere, per comprovare la fama di questo straordinario personaggio, che a individuarlo quale iniziatore del diritto internazionale è stato di recente addirittura Carl Schmitt, il quale vedeva in lui un italiano accostabile a Machiavelli. Se il fiorentino aveva nettamente separato l’arte della politica dall’etica religiosa, Gentili aveva compiuto un’operazione analoga in campo giuridico, staccando le categorie del diritto dalla subordinazione alla teologia. Fu il primo – è stato osservato – a superare il concetto di «justa causa belli» e a elaborare piuttosto quello di «justus hostis», di giusto nemico, preludendo quindi ad un realismo incentrato sulla logica distruttiva dell’opposizione irrevocabile amico-nemico.
Il De papatu è il più celebre degli inediti di Alberico. Il professor Minnucci dimostra che ci lavorò con correzioni e appunti almeno fino al 1591. Per capire in pieno l’entità e la natura delle modifiche apportate e delle annotazioni aggiunte occorreva tornare a studiare la fonte manoscritta nella sua interezza. Il progetto, dopo oltre sei anni di intenso lavoro, si è concluso. Ha la struttura di un trattato scandito geometricamente in ventiquattro Assertiones, tesi, cioè, attraverso le quali si vuol dimostrare che l’Anticristo era da identificare nel Papato Romano. Vi si trattano temi di natura teologica e giuridica. Tanto per fare qualche esempio si rammenteranno il rapporto con le immagini, i sacramenti, il celibato ecclesiastico, il Purgatorio, il culto dei santi e delle reliquie, il libero arbitrio, i miracoli, la giustificazione ex sola fide e le bonae operae, il potere temporale del Papa e il Primato Romano. Insomma, i punti cruciali che animavano le acuminate dispute della Riforma e le risposte della Riforma cattolica. Di questa massa di chiose si rimanda sempre alla fonte scritturale, classica o umanistica e contemporanea. E le numerosissime note a piè di pagina costituiscono un formidabile apparato critico.
Per certi versi è lecito affermare che le pagine di Gentili sono innanzitutto un appassionato florilegio degli attacchi più insidiosi lanciati contro la Chiesa di Roma. Ma uno degli scopi che vi appare ancora in divenire, e che caratterizzerà in misura crescente gran parte della sua produzione scientifica negli anni futuri, è la rivendicazione sostanziale di una laica autonomia del diritto, e di coloro che lo professavano, rispetto ai compiti riconosciuti ai teologi: «il giurista italiano – scrive Minnucci nella lunga e densa introduzione – giungerà alla conclusione», nel decennio successivo, «che ai teologi, sommi interpreti della Scrittura, deve essere riconosciuta la competenza a studiare ed interpretare i precetti divini regolatori dei rapporti fra l’uomo e Dio, mentre ai giuristi che ratione subiecti (l’uomo e le sue azioni) e ratione finis (il diritto umano), sono ritenuti competenti ad interpretare le norme regolatrici delle relazioni umane resterà il compito, anche alla luce dei precetti della Scrittura, di definire quelle stesse problematiche sotto il profilo del diritto». La separazione dei due ambiti non escludeva ascolto e considerazione di quanto discendeva dalla parola della Scrittura, ma sulla base di analisi tecniche e valutazioni soggettive riferite alla storicità degli avvenimenti e delle finalità da perseguire in vista del bene comune. Dal punto di vista politico Gentili sostenne che la superiorità di un sovrano nei confronti della legge non doveva farlo ritenere dispensato dal tener conto dei comandamenti delle legge divina. E il diritto di resistenza dei sudditi poteva esprimersi solo se ammesso dagli ordinamenti pubblici e attuato non da privati per ristretti obiettivi particolari.
Riprendendo l’interrogativo iniziale sul perché il frutto di un lavoro di tale ampiezza e incisività non sia stato dato alle stampe è probabilmente da credere che abbiano agito una serie di ostacoli. L’opera era davvero un work in progress che Alberico aggiornava via via sulla base delle roventi controversie che insorgevano. La sua intenzione era quella di attestare il suo risoluto antipapismo, anche per mettere a tacere la accuse che gli venivano rivolte dall’area puritana. Decretare con sicurezza i motivi che hanno reso fino ad oggi inedito il De papatu – tant’ è che Minnucci si limita prudentemente a formulare alcune ipotesi – non è semplice. Ma accessibile finalmente lo è, e scrutabile in controluce, cogliendone pentimenti, modulazioni, oscillazioni, sfumature, aggiunte, penetrando insomma nel fervido laboratorio di un autore che merita rinnovata attenzione. Senza – per carità – cedere a facili quanto improprie e anacronistiche attualizzazioni!
Da “Toscana Oggi”, ottobre 2018
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